A colloquio con l’attore e regista Lollo Franco a partire dalla parabola della pecorella smarrita

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di Francesco Inguanti

Nel corso della manifestazione svoltasi a Terrasini dal 12 al 15 settembre 2019 dal titolo: “I media della CEI insieme… per passione” un pomeriggio è stato dedicato ad un confronto sul tema della giustizia. Tra gli altri è intervenuto Lollo Franco, attore, regista teatrale e scenografo. A conclusione gli abbiamo posto alcune domande.

Lei ha deciso di commentare una parabola particolare, quella comunemente definita della pecorella smarrita, riportata nel Vangelo di Matteo (18,12-14) e in quello di Luca (15, 3-7). Perché questa scelta?

Perché è una parabola molto significativa. Pensare ad un pastore che su un numero di 100 pecore ne lascia 99 per cercarne una è un fatto a dir poco incredibile. Queste pecore non sono tutte eguali e anonime; hanno un nome; sono persone.

Ma perché proprio questa?

Perché mi ha fatto pensare più di altre ai miei allievi detenuti, e non solo, ma anche agli immigrati, con cui da tanti anni faccio teatro e non solo. E per me queste sono da sempre persone. Quindi un pastore che lascia 99 pecore per cercarne una è davvero un avvenimento importante. Tutti infatti pensiamo che avendone 99 una più o una meno non fa differenza. Ma è proprio quella che si smarrisce che va ritrovata, ed è lì che sta l’intervento laico delle parabole di Gesù. Infatti questa parabola non riguarda i cattolici e il cristianesimo, ma tutti perché c’è insita la filosofia della vita.

E questo che rapporto ha con il teatro?

Il teatro nasce dal rito e il rito sono le parabole; quindi, tutto gira. Io sono stato colpito dalla richiesta di commentare questa parabola e molti amici detenuti si sono commossi quando gliel’ho detto.

E allora, perché i carcerati sono pecorelle smarrite? Perché hanno violato la legge o perché hanno smarrito qualche cosa di altro?

Sono smarriti perché sono nati dove sono nati. Buscetta a tal proposito disse a Falcone che se fossero nati ciascuno al posto dell’altro in quel momento si sarebbero trovati a ruoli invertiti. I miei attori detenuti sono delle pecorelle smarrite che io ad una ad una sto tentando, in qualche caso riuscendoci, a dare lor dei suggerimenti sulla loro esistenza, quindi sul loro futuro. Non è a caso che nello spettacolo che abbiamo fatto alla presenza di tutte le autorità sulla figura di Pio La Torre, il detenuto che ha impersonato Pio La Torre ha già fatto 11 anni di carcere e deve farne ancora 8.

Nella sua esperienza un detenuto cosa ha smarrito?

Un detenuto ha smarrito sé stesso. In genere un detenuto commette un reato non per mera vanità, ma per vivere, lo fa per dimostrare agli altri che lui ha un valore, nel vivere nel suo rione, nel suo quartiere; è una prova d’arte. È la prova d’arte che la mafia fa fare ai giovani rampanti. Poi fa fare prove ad una corsa sola. Sono azioni che non consentono di tornare indietro. La persona viene usata e poi abbandonata. Quando li incontro in carcere pongo sempre questa domanda.

Quale?

Vi sembra giusto che le vostre mogli debbano fare tanti lavori umili e faticosi per pagare i vostri avvocati? Quando si affronta questo tema, bisogna però distinguere i mafiosi dai detenuti comuni: i detenuti comuni sono coloro che hanno fatto omicidi, rapine, scippi, ecc., reati gravissimi: ma per lo Stato sono omicidi comuni. I mafiosi sono altrove, al 416 bis. Oggi per reati mafiosi si danno 16 anni. Prima se ne davano 5. Oggi 16 anni sono tanti, perché tutti hanno moglie e figli, ecc. Ecco perché nascono anche gli intrighi e le complicazioni dei pentimenti.

Quindi anche in carcere la mafia è cambiata?

Il vecchio codice mafioso prevedeva per il capo mafia i minori guadagni per consentire a tutti “di campare”. Oggi non è più così. Rimane il fatto che chi delinque e non è in qualche modo organicamente inserito nel contesto mafioso deve poi provvedere autonomamente dal carcere al mantenimento della famiglia e a pagare gli avvocati. Questi si possono chiamare “indipendentisti” perché certamente hanno acquisito la logica delinquenziale e mafiosa, ma non fanno ancora parte della famiglia.

E che differenza c’è con gli altri?

Questo li rende più deboli e fragili rispetto agli altri. Poi ci sono quelli che vogliono entrare nella famiglia e quelli che sono rispettosi ma non vogliono entrare. Rimane il fatto che il problema del sostentamento delle famiglie per i detenuti è il più importante. E meno male che adesso grazie al lavoro in carcere molti possono guadagnare qualcosa da dare loro che stanno fuori. Poi ci sono quelli smarriti “per finta”. Ma quelli non fanno parte del mio laboratorio, perché io me ne accorgo subito. Sono quelli che vengono da me per prendere permessi ed ottenere privilegi. E questi io li escludo.

E come fa a capirlo?

Attraverso gli atti processuali dai quali è facile capire il motivo per cui si è commesso il reato e come ci si è comportati. Io non voglio avere rapporti con i truffaldini, perché questi non vogliono avere rapporti nemmeno con la madre e i figli. E se devono fare una truffa la fanno anche a loro stessi.

Ma esiste ancora un codice mafioso?

In parte sì. Chi ha rapporti con la delinquenza è come se avesse un codice cui attenersi, che ha anche aspetti di moralità. Per esempio questi non usano il turpiloquio; hanno un rapporto assolutamente rispettoso per chi va a trovarli o va a lavorare in carcere, come me e altri. C’è gente che grazie al mio lavoro in carcere dopo anni è uscita ed è diventa attore e quindi vive di questo lavoro.  Vorrei raccontare un fatto accadutomi.

Prego

Quando mettemmo in scena l’opera su Pio La Torre dovetti scegliere chi doveva fare il tenente che doveva arrestare Pio La Torre. Quando lo proposi al detenuto che ritenevo in grado costui ebbe qualche esitazione. Nell’occasione gli dissi: “Se non lo fai, vuol dire che non vuoi aiutare la tua famiglia”. Quando ci siamo rivisti alla prova mi disse: “Ho parlato con mia moglie e mi ha detto che finalmente stavo pensando alla famiglia”. Tutti i miei attori sono grandi attori perché vengono dalla strada che è la grande maestra del teatro. Per me sono attori, momentaneamente detenuti, e non detenuti che fanno gli attori.

Torniamo alla pecorella smarrita. Chi è?

Un uomo che vuole ritrovare sé stesso. Quando un detenuto entra in depressione gli altri lo aiutano in silenzio, facendo finta di non sentire i singhiozzi. Anche se io riesco con tre, due o uno mi ritengo vincitore, perché vuol dire che è la società che ha vinto. Quando uno di loro mi dice: “Non andrò più a rubare”, per me è come conquistare un traguardo.

Chi è allora il pastore della parabola?

Potremmo dire semplicemente che è tutta la società.

Ma lei si sente pastore?

No! Assolutamente! Mi sento più pecorella, magari non smarrita, che pastore. Il pastore ha sempre una posizione di privilegio, io con i detenuti mai, sono uno di loro. Per esempio quando abbiamo fatto la rappresentazione per l’ultimo festino ho fortemente voluto che con me ci fossero due detenuti che rappresentavano la città.

E quindi chi è la società, di cui parla?

La società di cui parlo è quella costituita da coloro che credono nell’accoglienza, nel cambiamento, nel valore della persona; che credono che tutti gli esseri umani sono persone. Poi ognuno ha la sua appartenenza, ma insieme si sta insieme. Le pecorelle sono tutte singole, ma insieme sono gruppo. Per certi versi esse sono al tempo stesso pecore e pastore. Come dire che tutti siamo un po’ pastori, ma se le pecore si mettono insieme possono trovare la strada per tornare all’ovile.

E che ruolo ha l’educazione in questo processo?

Credo ci sia l’esigenza di continuare a essere reali, e non virtuali. Viviamo in un mondo in cui se sappiamo usare il virtuale aiutiamo la nostra vita, ma se il virtuale sovrasta il reale allora diventiamo tutti video giochi. Una società in cui la morte non è la continuità, ma la fine.

A tal proposito si può dire che in carcere c’è poco spazio per il virtuale? E questo aiuta a vivere meglio?

Aiuta perché si ripristinano dei vecchi valori che fuori non ci sono più. Per esempio usare il computer, ma senza internet, riporta indietro di trent’anni all’uso della macchina da scrivere. E questo va a vantaggio del dialogo, del guardarsi, del sentirsi, del parlarsi. Non mi sento pastore perché il pastore ne prende una, io cerco di prenderle tutte. Ma questo dipende da quanto hanno grandi le spalle i singoli pastori.

Un contesto come il carcere in cui la quantità di tecnologia è minima, aiuta a vivere meglio certi valori e certi rapporti?

Chiariamo subito. La prima cosa che manca in carcere è il movimento autonomo, cioè la possibilità di muoversi secondo le proprie decisioni. In carcere non sia apre più o non chiude più una porta; ci sono altri che devono farlo secondo precise regole. In carcere non ci si può spostare più da soli.

Ce lo spiega meglio?

L’ho imparato venti anni fa. C’era un ragazzo che doveva venire alle prove e aveva appena finito di fare la doccia. Lo invitai a far presto poiché eravamo in ritardo, ma lui mi fece notare che senza la guardia carceraria non poteva rientrare in cella per vestirsi. Dovette aspettare che quella venisse per rientrare in quella che in qualche modo era casa sua.

Questo che significa?

Significa che il carcere è come il teatro; il carcere aiuta prima alla vita e poi al carcere, il teatro aiuta prima alla vita e poi al teatro. Solo che in carcere ci sono delle regole e bisogna spersonalizzarsi per entrare in questo tunnel di regole, che vanno dimenticate appena finita la pena. All’interno del carcere c’è una fratellanza assoluta; quando escono non si salutano nemmeno.

In carcere si dice che si impara il valore delle cose che non si hanno più? È così? È tutto qui?

Assolutamente no! In carcere ci sono due tipi di detenuti. Quelli che sanno farsi il carcere e quelli che non sanno farselo. Faccio un esempio: nel primo caso il detenuto che sta male di notte sa che non deve chiamare la guardia, ma deve aspettare l’indomani. Se chiama è proprio perché sta morendo e allora ha tutte le giustificazioni del mondo. Ma se chiama senza un serio motivo, vuol dire che non sa rispettare le regole della convivenza carceraria. Quando si dice: “quello sa farsi il carcere”, vuol dire che quella è una persona seria. Il carcere è una delle cose più dure che esiste nella società. Anche se alcune condizioni oggettive sono migliorate negli anni il carcere è e rimane una cosa brutta, brutta, brutta!

Ma si dice che oggi il carcere sia più umano?

Non ci illudiamo di averlo reso più umano. Anche quando in carcere avessimo l’aria condizionata in ogni cella, questo non lo renderebbe più umano. In carcere bisognerebbe poter aprire le celle e dare l’opportunità di muoversi in autonomia. Il blindo, cioè la seconda porta blindata che chiude le celle, dopo la prima con le grate, ha solo uno spioncino che può aprire solo la guardia. Quando la sera il blindo si chiude sei murato vivo. Che nessuno venga a dire che il carcere è un hotel. Forse per i mafiosi nei decenni scorsi, Oggi neanche per loro.

Finiamo tornando alle pecorelle smarrite?

Come vede ci siamo già tornati. Io spero di poterle riportare tutte nell’ovile, cioè nella propria famiglia e nel proprio contesto sociale, e possano comunicare ai figli, alle mogli, alle madri, ai fratelli, a tutti, che hanno avuto un percorso sbagliato e che non devono essere ammirati per i reati commessi, ma per aver fatto cultura, per aver fatto il teatro, per aver fatto cose che sembrano apparentemente effimere ma che appartengono all’animo umano.

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