‘A chiesa di lu Parcu, alle sorgenti del fiume Oreto

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di Ciro Lomonte

Che differenze esistono fra un arciprete del 2005 ed un abate commendatario del 1618? Parecchie, non soltanto per la distanza cronologica.
Cominciamo dalle rendite disponibili. Nel 1633, l’ultimo anno della sua intensa vita di mecenate, il card. Scipione Caffarelli Borghese costruì la chiesa madre del cosiddetto Parco Nuovo, riserva di caccia di Ruggero II, il cui palazzo aveva ospitato nel 1305 la nascita di Pietro II. Per manifestare la sua gratitudine al Signore, il sollazzo regio venne trasformato dal padre Federico II, eroico re di Sicilia, nell’abbazia cistercense di S. Maria del Parco (oggi Altofonte). L’arciprete p. Nino La Versa invece ha dovuto raccogliere pazientemente offerte, moneta su moneta, per giungere al momento in cui sono iniziati gli indispensabili lavori di adeguamento liturgico del presbiterio della stessa chiesa. Sarebbe stato meglio procedere con finanziamenti pubblici? Da un certo punto di vista sì, ma non si è trovato un amministratore pubblico in grado di perorare la causa. In ogni caso la legislazione sugli appalti rende al momento estremamente difficile spendere oculatamente le somme messe a disposizione, curando i dettagli artistici e simbolici degli interventi.

Il sistema odierno di valori non è lo stesso dell’Europa del XVII secolo. In una società profondamente cristiana, per quanto segnata dalle ferite dello Scisma d’Oriente (1054) e delle varie tappe della Riforma Protestante (XVI secolo), la chiesa era uno dei luoghi di incontro principali di qualunque paese, per quanto piccolo, nel quale si portavano gioie e dolori ai piedi dell’altare. Anche una chiesa tipicamente siciliana come S. Maria di Altofonte, di architettura al tempo stesso semplice ed allegra (i colori variegati dei marmi non sono casuali) era il cuore pulsante della cittadina. Oggi come allora il popolo partecipa di tasca propria alla costruzione di chiese (di solito chi è generoso con Dio lo è altrettanto con i bisognosi), ma il tempo presente è il tempo dei dubbi, nel quale anche persone buone sembrano ritenere più importante e proficua la realizzazione di centri commerciali o di stadi di calcio oppure di villaggi turistici. Persino le più belle chiese del passato vengono considerate attrazioni turistiche, in cui far pagare un biglietto di ingresso, visitate con lo stesso atteggiamento superficiale che si assume a Disneyland.

Va recuperata la metafisica dell’atto di essere. Il godimento della bellezza non è consumo epidermico di sensazioni, è approccio educato dei sensi, dell’intelligenza, della volontà, delle emozioni, a tutto quanto è stato prodotto dai nostri antenati. In tal modo diverremo sempre più capaci di lasciare traccia anche noi ai posteri, ma soprattutto renderemo più vivibile il mondo attuale. Saremo in grado per esempio di recuperare quella Valle dell’Oreto (tuttora meravigliosa, nonostante gli scempi operati nel dopoguerra) che inizia proprio ad Altofonte.

In passato inoltre le opere di architettura erano frutto di un committente colto, dalle idee chiare. Non è un discorso elitario. Era colto anche il contadino, scarpe grosse e cervello fino, che sapeva a cosa servisse specificamente l’edificazione di una stalla. C’era quindi lo sforzo dell’architetto di tener conto dei tre requisiti vitruviani (utilitas, firmitas e venustas, vale a dire funzione, struttura e bellezza) e della sua capacità di guidare un lavoro di squadra in cui tutti gli artigiani fossero messi nelle condizioni di dare il meglio della propria esperienza, trasmessa di generazione in generazione. Al giorno d’oggi è più difficile che si determinino gli stessi presupposti, per svariate ragioni. Ciò non toglie che occorra provarci. Nel caso di S. Maria di Altofonte, ad esempio, si è creata l’intesa giusta tra parroco (p. La Versa), architetti (Lomonte e Santoro), impresa (G.F.P. Restauri S.r.l. di Raccuglia Francesco, con il geom. Giuseppe Alotta a seguire i lavori), artigiani (Lo Cicero, Ciaccio, Levantino, De Luca, Lucia, Costa, De Luca e altri). Le tappe per l’approvazione del progetto sono state lunghe e tormentate, ma la realizzazione delle opere è proceduta spedita.

La pavimentazione è stata resa coerente con l’altare barocco originario ed il suo piedistallo gradonato. Le sagome curvilinee dei nuovi gradini sulla navata anticipano il disegno ellittico del piano del coro. All’interno di esso, ruotata rispetto alla precedente, si erge l’ellisse che accoglie l’altare coram populo. Quest’ultimo, anch’esso in marmo, è composto in modo da evocare il detto di S. Ambrogio («Che cosa è l’altare di Cristo se non l’immagine del Corpo di Cristo?»). Sono stati ripristinati fregi, modanature e plinti delle lesene originarie, rimodulando il coro ligneo in modo da rispettare la partitura architettonica. È prevista anche, compatibilmente con le risorse disponibili, la collocazione di un ambone e di un candelabro pasquale che siano simboli della luce della Risurrezione. Il fonte battesimale barocco è stato collocato di fronte alla prima nicchia a destra del presbiterio, che allude così al sepolcro vuoto. L’effetto sarà migliore ancora se si troveranno i fondi per dipingervi l’affresco previsto.

Per concludere, ci potremmo chiedere cos’abbiano in comune un arciprete del 2005 ed un abate commendatario del 1618. Forse la prudenza. Quella virtù dell’intelletto pratico che, in un cristiano, attinge ad un tesoro eterno, dal quale egli sa trarre di continuo perle antiche e perle nuove. La fede autentica infatti produce cultura, più che subire le mode intellettuali dell’epoca, ed è perennemente in grado di stupire, proprio perché non è la stravaganza ciò che cerca.

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