La pienezza di un vuoto: riscoprire l’insegnamento grazie alla didattica a distanza

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di Carola D’Andrea

In questi giorni così particolari, così stranamente inediti, in questi giorni in cui ognuno di noi, nel proprio piccolo mondo e nella propria quotidianità, sperimenta la fragilità della propria umanità e del proprio limite, è d’obbligo una risposta. Quale risposta è richiesta? Qual è oggi, in questo preciso momento, la forma della responsabilità? A cosa è chiamato un insegnante?

Mentre cerco immagini e scrivo appunti sulla videolezione, mentre preparo slide e mappe per spiegare la libertà di pensiero, arrivano gli aggiornamenti sulle morti e i contagi. Mentre l’esercito di docenti, armato di computer e tablet, cerca disperato nuove modalità didattiche, qualcosa potrebbe essere dimenticata. Non mancano e non mancheranno risposte tecnologiche, soluzioni 2.0 alla crisi che stiamo vivendo e, anzi, sono certa che essa sarà una risorsa dal punto di vista dell’innovazione e del cambiamento, tanto atteso e sperato, all’interno del mondo della scuola. Ma non basta. Non basta inviare video e appunti ai ragazzi, non basta offrire incentivi economici alle aziende o aiuti ai genitori che, finalmente, possono trascorrere del tempo con i loro figli senza inseguire scadenze e impegni lavorativi, formativi, ludici o sportivi.

Ora che i ristoranti e le palestre si svuotano, le case si riempiono di domande. Quelle dei genitori, giustamente preoccupati per sé stessi e per i propri figli; quelle dei nonni, sovraccaricati dal nuovo full-time nel ruolo di babysitter e dai media che già ne decretano la sepoltura; quelle dei ragazzi e dei bambini, all’improvviso catapultati in uno spazio-tempo dilatato e sospeso. Le agende sono vuote, così come le strade e i pub, di cosa riempirle?

«Sentiamoci su whatsapp», «alle 13.00 il collegamento su Skype»… eppure non basta. Qualcuno sottolinea gli effetti positivi del coronavirus dal punto di vista climatico, la riduzione delle emissioni di gas e del consumo energetico. Qualcuno analizza il quadro socio-antropologico, riportando le antiche e sempre nuove riflessioni sulle paure apocalittiche e, ovviamente, non mancano le letture complottiste. Il virus, pur obbligando a un maggiore utilizzo delle tecnologie, ci consegna drammaticamente ai nostri corpi, a quella dimensione corporea che proprio la realtà virtuale sembra aver annullato. I corpi ritornano sulla scena e con essi tutto il carico di umanità, debolezza e finitudine della condizione umana. Mentre i volti appaiono sugli schermi e le parole si moltiplicano nelle chat, tutto manca. Penso costantemente a loro, ai miei alunni, alle voci ritrovate durante la videolezione, ai loro sguardi curiosi e distratti, alle corse durante la ricreazione e alle battute che, pur interrompendo la lezione, ci fanno compagni, classe.

«Mi mancate» solo questo vorrei dire, ma non basta. In questo tempo, che sembra svuotare ogni gesto e relazione, ci è offerta la possibilità di riscoprire ciò che veramente riempie, l’origine delle nostre azioni e scelte, prima fra tutte quella dell’insegnamento e dell’educazione. Certamente alcuni potrebbero dubitare dell’utilità della didattica a distanza e, mentre altri sottolineano la quasi uguaglianza con una lezione in classe, ciò che veramente bisogna ricordare è l’importanza di consegnare ai ragazzi non tanto contenuti e informazioni disciplinari ma, attraverso queste, un segno. È questa, d’altronde, la radice dell’in-segnamento, la capacità di lasciare, nel tempo e oltre il tempo, un segno. Non saranno i file caricati sui diversi portali né i video e i materiali sapientemente elaborati da docenti esperti a colmare il senso di smarrimento che i ragazzi, e con loro ognuno di noi, stanno vivendo. È il momento di riscoprire e di fare scoprire il senso dell’istruzione, dunque della scuola, che, mentre ci si affaccia per la prima volta sul mondo, fa compagnia, aiuta a dare direzione all’agire e al pensare. La particolarità del momento obbliga, probabilmente per la prima volta, a sperimentare un tempo vuoto, non riempibile, dati i decreti del governo, con distrazioni.

Come rispondere? Di cosa riempire le giornate improvvisamente formate da 24 ore? Dopo una bulimica scorpacciata di serie tv e film in streaming, dopo aver provato tutte le ricette culinarie del libro ricevuto lo scorso Natale, aver letto i libri che affollavano da anni il comodino, rimane un vuoto. E, appare potente la verità, niente potrà colmarlo. È questa una preziosa, chiaramente non desiderata, possibilità, quella per interrogare il nostro intimo più profondo, per fermarci a guardare il miracolo che ogni giorno si compie nelle nostre vite, per considerare nuovamente quei rapporti che accavallano le giornate.

Cosa offrire, dunque, ai ragazzi in questo momento? Una presenza e una domanda. La presenza di un ascolto che supera i mezzi e le distanze, l’ascolto di chi, nonostante tutto, è lì perché vuole agire verso il bene singolare dell’altro. La presenza di chi, nel silenzio e nell’incertezza del momento, ricorda che la scuola non si esaurisce tra i banchi e nella valutazione di un compito. Io sono qui, questo vorrei dire ai miei ragazzi, sono qui e mi sento smarrita quanto voi, non abbiate paura di questo vuoto, interrogatelo e guardate, attraverso questo timore, il vostro desiderio. Ora, nel silenzio di questo tempo incerto e privo di coordinate, è possibile scoprire, e quindi custodire, il segno autentico di una direzione, quella del nostro esistere. Ora, proprio nel momento in cui è necessario subire una limitazione delle nostre libertà, possiamo riscoprire la nostra profonda appartenenza. D’altronde, ricorda Andrea Marcolongo nel suo libro Alla fonte delle parole (Mondadori, 2019), è questa la sorgente della parola “libertà”, figlia di quella radice indoeuropea che indica “colui che ha diritto di appartenere a un popolo”, che “può scegliere di appartenere a un’entità superiore al di sopra del singolo individuo”.

A chi apparteniamo? Quale volto cerchiamo nel vuoto delle nostre fragilità? Chi può riempirlo? Qual è la fonte del nostro desiderio? Queste, e altre, le domande che un insegnante dovrebbe donare ai suoi alunni, non solo in questo momento straordinario, ma anche in quella ordinaria monotonia che spesso sbiadisce la singolarità, dunque l’unicità, di ogni esistere e desiderare.

La didattica a distanza può divenire allora una risorsa, uno strumento attraverso cui nutrire quella relazione che, ovviamente, la presenza in classe favorisce. E, date le limitazioni dei contatti, diventa doveroso e complesso trovare soluzioni individuali anche all’interno dello stesso mezzo comunicativo. Non basta collegarsi, indicare la propria mail o il proprio contatto, essere presenti.

Occorre indicare, soprattutto in questo momento, una direzione e uno sguardo sul mondo: questo è il compito della scuola, aiutare il ragazzo a elaborare un sistema simbolico attraverso cui leggere la complessità del reale, quindi insegnare a tenere insieme le sue diverse componenti. Non esistono momenti, strumenti o metodologie migliori di altre per insegnare: esistono volti, con desideri e mancanze, debolezze e aspirazioni; esiste la possibilità di indicare, anche nel buio e nell’ignoto, lo stupore dell’inizio, il perenne cominciamento dell’esistenza che parte sempre dall’incontro dell’altro. Se i decreti tengono a distanza gli sguardi e le mani, questo potrebbe essere il momento per abbracciare quell’altrui segreto che, solitamente, la vicinanza nasconde. È il momento, forse, per ritornare umani, terra fertile per la fioritura dell’altro. È il momento per riscoprire, rispettando le indicazioni governative, la pluralità dell’esistere, il significato originario del rapporto tra l’io e il mondo, quel significato su cui si gioca l’intera esperienza educativa.

In questo momento di prove la scuola riceve una sfida importante: mostrare l’autenticità di tutto ciò che regolarmente insegna, o dovrebbe insegnare, tra i banchi, ovvero l’ampiezza del desiderio e del conoscere e, attraverso queste, la possibilità d’esistere con un significato. Non stupisce allora che la parola “insegnare” conservi sia l’eco lontana del verbo latino secare, «intagliare un albero per farne direzione», sia quella del sostantivo signum, da cui “significato” (Marcolongo, 2019).

 

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