Il prof. Nicolò Mineo è professore emerito dell’università di Catania, dove ha ricoperto la carica di Preside nella Facoltà di Lettere e Filosofia, nella quale ha insegnato Letteratura italiana. Ha insegnato anche nell’Istituto Universitario di Magistero di Catania e nell’Ateneo di Enna. Ha altresì una esperienza amministrativa in qualità di Assessore al Comune di Giarre.
di Francesco Inguanti
Andrà tutto bene. Questo leitmotiv, che ci accompagna fin dall’inizio dell’emergenza coronavirus, ha trovato nei cattolici un fondamento ribadito anche dal Papa: la certezza della fedeltà di Dio nella storia. Ma nei laici su che cosa è fondato?
Apro con una autocitazione. Come Presidente della Società di Storia patria e Cultura di Giarre e Riposto, in provincia di Catania all’inizio della chiusura e in occasione della Pasqua ho così salutato gli amici soci: «Dante ricorda nel suo poema «che Cristo apparve a’ due ch’erano in via, già surto fuor de la sepulcral buca». È sapienza millenaria. Vivere la vita con speranza. L’autentico umanesimo, quello che ha dato senso alla storia dell’uomo. Nei nostri incontri, nel loro valore più profondo, abbiamo inteso sempre costruire per una più vera cultura, che non può non essere fondata sulla partecipazione e la collaborazione. Il mio augurio, se posso permettermi, è che tutti superiamo la calamità attuale con una forte consapevolezza della necessità della responsabilità e della solidarietà. Ce lo sta dicendo anche papa Francesco. Penso che, pur con varie angolazioni, accentuazioni, variazioni, gli uomini di quello che chiamiamo Occidente siamo depositari di una cultura comune, che vede la storia come percorso certo incidentato, anche duramente e gravemente, e deviante, anche per periodi duraturi, ma nei tempi lunghi orientato verso un prevalere di valori, anche se vari e differenziati. La cautela nell’immaginare i «grandi racconti» e soprattutto nel progettare in rapporto a questi è stata imposta dalla storia stessa, ma non credo che siano da ritenersi estirpati dalla nostra struttura mentale. Laicità è guardare con intelligenza e coscienza ai racconti diversi dai nostri, come forme simboliche.
Niente sarà come prima. Questa considerazione non pare ben argomentata. Dalla Guerra del Golfo a oggi, solo per citare gli eventi internazionali di maggior peso, il ritornello è tornato a circolare tante volte. Ma i fatti successivi si sono preoccupati di smentirlo. Perché questa volta dovrebbe essere vero?
Guerra (o guerre) del golfo e torri gemelle e Pearl Harbour o l’atomica sulle città giapponesi, guerra dei cento anni o guerre mondiali, ecc. Credo che veramente dopo queste il mondo sia stato diverso, ma non furono la stessa cosa, e la diversità del mondo allora non fu come potrà essere ora. La stessa cosa fu invece la peste del 1348. Ma subito dopo Boccaccio spiegava che il mondo era rimasto come sempre era stato, fatto dello scontro tra capacità individuale del singolo e situazioni oggettive che potevano determinarsi per le varie e incontrollabili volizioni di altri. Si sarebbe affermata per secoli l’idea che fosse l’uomo il soggetto da tenere al centro della conoscenza del mondo e delle volizioni ma nella consapevolezza dell’aleatorietà. La chiamarono «fortuna». Il nuovo di quello che avviene oggi dipende dal fatto che dalla metà del Novecento avevamo sostanzialmente dimenticato l’esistenza della fortuna. Non ce la faceva riconoscere sino a ieri neanche il cambiamento climatico. La Giovanna d’Arco che ce lo fa ricordare da qualche parte è addirittura oggetto di beffa. Solo per l’estensione e l’intensità e l’evidenza di quello che sta accadendo ora abbiamo capito che qualcosa è accaduto. Ne abbiamo ridotto le conseguenze, i morti saranno solo un triste ricordo per i più, ma l’impoverimento o, più diffusamente, il decremento di affluenza cambierà molte abitudini e soprattutto ci renderà meno fiduciosi. E forse non sarà un male, perché distruggeremo di meno. Che significa anche rispettare di più la vita. E apprezzeremo di più quel che abbiamo. Se un apocalittico (nel senso più ampio) del nostro tempo parlasse di Provvidenza non mi stupirei.
Le tifoserie contrapposte hanno sempre accompagnato la storia recente del nostro Paese. Adesso ci sono alcuni che reclamano un ritorno al centralismo, altri che vorrebbero accentuare il decentramento. Lo scontro tra Regioni e Governo nazionale ne è la testimonianza più palese. Chi vincerà questa nuova disputa?
Penso che vincerà il centralismo. Personalmente sono per questo. Un centralismo però che non abolisca ogni tipo di autonomia. È questione molto complessa e che va affrontata con specifiche competenze. La Regione in un certo senso è un’astrazione, perché prevede realtà unitarie che non esistono quasi da nessuna parte. Lo constatiamo proprio in Sicilia. Terra che non ha mai, o quasi mai, avuto una sua vera unità, anche se ha avuto una sua caratterizzazione rispetto ad altre terre d’Italia. In ogni caso è bene che siano unificati determinati settori, a cominciare dalla sanità. E come dovrà essere per la scuola in tutte le sue articolazioni, se riusciremo a contrastare certi umori che vanno serpeggiando. Normative diverse in settori chiave non possono coesistere proprio in dipendenza dall’attuale forte possibilità competitiva delle regioni per cui si possono creare situazioni di stallo o differenziazioni nefaste. Diversa consistenza avrebbero avuto le città metropolitane nella forma che si era immaginata. Che sarebbero nate da aggregazioni di realtà economico-culturali e storiche effettivamente omogenee. E che non avrebbero mai avuto una capacità competitiva tale da bloccare decisioni di interesse generale. Ma forse per questo alla fine non si vollero.
Massimo Recalcati ha scritto: “Questo virus ci insegna che la libertà non può essere vissuta senza il senso della solidarietà, che la libertà scissa dalla solidarietà è puro arbitrio”. A suo parere, che senso ha questo oggi, per noi obbligati a vivere da soli, chiusi in casa? E che senso può avere domani?
Della solidarietà dicevo nel mio saluto che ho citato prima. La nozione ha vari livelli. Anzitutto dobbiamo conoscere i veri bisogni, che non sempre sono quelli che appaiono. Sul piano internazionale ritengo di devastante pericolosità il convergere di populismi e sovranismi. La storia della prima metà del Novecento dovrebbe essere memoria onnipresente di governanti e governati. La seconda metà del Novecento ha fondato il tempo delle convergenze in ogni campo (anche «parallele»). Che fu anche vittoria sul razzismo. Una conquista non solo politica e civile, ma garanzia di sopravvivenza per Stati e Popoli. Che va decisamente difesa. La globalizzazione potrebbe essere l’ulteriore conquista. Ma a patto di mantenere ferma consapevolezza che si sopravvive solo se tutti sopravvivono. E deve allargarsi a comprendere gli ultimi, tutti gli ultimi. A una specifica forma di solidarietà morale, politica e legale, di grandissimo peso, penso per l’Italia. Contrastare l’evasione fiscale, che ha causato da decenni il disavanzo, e il lavoro in nero, che danneggia anzitutto i lavoratori, quelli a reddito controllato. Dovrebbe essere una delle forme del cambiamento.
Anche intellettuali e artisti si sono mobilitati, in queste settimane, cercando di individuare strade inedite per “fare cultura”, anche da casa. Questi nuovi percorsi possono avere un futuro? Dovremo rinunziare alle conferenze, ai concerti e a tutte le occasioni in cui la cultura produce anche socializzazione?
Potremmo continuare a fare molte cose rimanendo a casa. Costerà molto di meno, anche in termini di tempo, e sarà più responsabilizzante. Anche molta parte dell’attività scolastica, di ogni ordine, si potrebbe continuare a svolgere telematicamente. Ma certo non abolendo il rapporto personale tra docenti e studenti, dei docenti tra loro, degli studenti tra loro. Si potrebbero organizzare forme miste. Sarà importante continuare ad avere le forme pubbliche di scambio e creazione di cultura. Ma quante iniziative non realmente funzionali e produttive si potrebbero evitare. Soprattutto quelle imposte per la carriera dei docenti universitari. Con risparmi di tempo per studi seri e di danaro, da devolvere ad altre cose, come borse di studio e stampa e acquisto di pubblicazioni.
Ha fatto molto parlare la lettera aperta che Pupi Avati ha inviato alla Rai, invitando i dirigenti a rivedere i palinsesti, essere ambiziosi e scommettere sulla bellezza. Non per una parentesi, piuttosto per «ritrovarci più consapevoli» quando l’emergenza sarà passata. È stato impressionato dall’attenzione ricevuta: «mi ha meravigliato e commosso. Perché quella letterina che ho scritto assomiglia alla bellezza della gente. Ed io volevo solo dire che l’opportunità che ci è consegnata in questa tragedia va sfruttata». Quale tipo di opportunità può sfruttare la cultura in questo frangente?
Sono commosso e convinto della bontà del suggerimento di Avati. E se le emittenti ci dessero più teatro, più cinema, più musica, più letture ed esposizioni di testi della grande arte mondiale? Per tutti i gusti e interessi certo. E meno inviti alla violenza, anche se criptati. E meno chiacchiere riccamente gettonate.
In momenti di particolare difficoltà storica quasi sempre le autorità morali sono quelle che si impongono per la loro caratura etica e il grado di autorevolezza riconosciuto a livello internazionale. È il caso anche di papa Francesco. A sua avviso quali sono state in questa delicata fase le caratteristiche della sua persona e del suo messaggio che sono state più ampiamente riconosciute?
Non ho dubbi. Le preghiere nella solitudine di questo Papa sono state uno spettacolo indimenticabile, rattristante e insieme consolante. Era solo, ma il mondo era con lui. E ogni credente avrà sentito molto di più. Ho scritto e detto pubblicamente più volte che questo Papa è l’unico uomo che oggi abbia diritto di parola. Ma mi si consenta di dire che vicino gli vedo un Mattarella. Potranno dare coraggio e indirizzi di vita quando si riprenderà.