di Francesco Inguanti
Il 22 settembre del 2020 la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicata la Lettera “Samaritanus bonus” sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita. Abbiamo chiesto al Cardinale Angelo Scola, che più volte è intervenuto sulle questioni ivi esposte, di rispondere ad alcune domande.
La sua vita è stata anche segnata dalla esperienza della malattia e della sofferenza, che ha raccontato nel libro/intervista “Ho scommesso sulla libertà”. Che corrispondenza ha trovato della sua vicenda personale nella lettura di “Samaritanus bonus”?
Molte sono le corrispondenze che vi ho trovato. Ne sintetizzo sommariamente alcune. Anzitutto il leggere la malattia grave e l’affacciarsi della morte come “inesauribile domanda sul senso del vivere”; poi la spiegazione dell’uomo nella sua natura paradossale di “creatura finita, e pure destinata all’eternità”. Ancora, la necessità di una salvezza integrale dell’io come unità indisgiungibile di anima e di corpo. E l’emergere continuo del tema di fondo: guardare al Crocifisso risorto sostiene nella consegna di sé cui ci chiama la malattia grave e l’avvicinarsi della morte, e “rende manifesto che nella storia la parola ultima non è mai la morte, il dolore, il male”.
A partire dal caso di Eluana Englaro, Eminenza, ha svolto interessanti considerazioni sul rischio di “scambiare i nostri desideri, anche legittimi, con il bene del paziente” e si domanda se la <<morte degna>> non sia una “invenzione di noi sani,”. Che risposte ha trovato a queste sue domande e preoccupazioni nella “Samaritanus bonus”?
Anzitutto ho avvertito una straordinaria consonanza tra la concezione antropologica sottesa alla Lettera della Congregazione per la dottrina della Fede e la mia sensibilità. Inoltre ho riconosciuto l’importanza di molte sottolineature puntuali. Per esempio quelli che il documento evidenzia come “ostacoli culturali che oscurano il valore sacro di ogni vita umana”. Ne riprendo alcuni. Un concetto di bene come esito di un accordo sociale: ciascuno riceve le cure e l’assistenza che l’autonomia o l’utile sociale ed economico rendono possibili o convenienti. Così davanti a una sofferenza qualificata come “insopportabile”, si giustifica la fine della vita del paziente in nome di una falsa idea di compassione. Ancora: l’individualismo esasperato induce a vedere gli altri come limite e minaccia alla propria libertà fino a tematizzare in alcuni contesti normativi un “diritto alla solitudine”. In nome della libertà il “principio del permesso-consenso” in determinate condizioni di malessere o di malattia, può estendersi fino alla scelta o meno di continuare a vivere. L’antidoto a simili errate posizioni è anzitutto uno sguardo che non faccia coincidere inguaribile con incurabile. E questo è possibile solo attraverso la “testimonianza di una comunità sanante”.
Perché si pensa sempre più spesso che sia un diritto stabilire quando morire, anche se non si versa in cattive condizioni di salute?
Penso che qui la paura di morire preme sull’umana debolezza. Per evitare l’angoscia finale sembra meglio darsi la morte per tempo.
A fronte di questo atteggiamento ve ne è uno opposto che si esprime in una sorte di “medicalizzazione eccessiva” spesso perpetrata dagli anziani verso loro stessi, di cui è testimonianza la quantità di medicine depositate sui loro comodini. Anche in questo caso manca una adeguata educazione?
La questione della medicalizzazione eccessiva della vecchiaia è complessa. È vero che un’autentica educazione alla morte, che non è finire nel nulla, potrebbe evitare un eccesso, spesso inutile, di uso dei medicamenti.
Il problema del male e della sofferenza accompagna l’uomo fin da quando è sceso dall’Eden in terra. Poiché non sa darsi da solo una risposta, perché non accetta che la risposta venga da un Altro?
Questo ci riporta a quanto abbiamo già detto parlando della situazione paradossale dell’uomo, creatura finita eppure destinata all’eternità. Non si supera in ogni caso l’inevitabile angoscia di morte elaborando una teoria adeguata sulla morte. Infatti neppure il Vangelo formula una teoria adeguata sulla morte. Ci offre la testimonianza, nella carne, della morte del Figlio di Dio. Di fronte alla morte bisogna guardare il Crocifisso. Qualunque discorso sulla morte non basta per tranquillizzarci.
Su questo tema papa Francesco si è espresso ripetutamente e in modo inequivocabile soprattutto il 27 marzo in Piazza San Pietro quando ha affermato: “La forza di Dio è volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte”. Come si fa a far comprendere questo concetto agli uomini, in un momento in cui sembra che Dio li abbia abbandonati con l’esperienza del Coronavirus?
L’unica strada è la testimonianza, personale e comunitaria, che a farci vivere anche in casi estremi è un amore più grande. È l’amore di Gesù per noi che ci può insegnare, se siamo disponibili, un po’ di amore autentico per Lui e per i nostri fratelli.
Nella introduzione al suo libro “Ho scommesso sulla libertà” afferma: “Dobbiamo ammettere che la Chiesa nel suo complesso oggi fa fatica a presentarsi come una proposta organica di fede che s’incarna in una comunità capace di trasmettere l’incontro con Cristo”. Non pensa che questo contribuisca pesantemente a privare gli uomini e le donne di oggi del motivo per vivere e pertanto a facilitare la tentazione di darsi la morte da soli?
Certamente lo penso. Tuttavia non bisogna dimenticare che la Chiesa è fatta da noi uomini e che la sua santità oggettiva abbraccia tutti i nostri limiti e tutti i nostri peccati. La Chiesa è semper reformanda. Abbiamo bisogno di santi che, concependo l’esistenza come vocazione, documentino efficacemente un senso pieno per vivere. Per i cristiani è Gesù Cristo presente e vivo.
Nell’ultima Enciclica “Fratelli tutti” il Papa fa ampio riferimento alla parabola del Samaritano come la lettera “Samaritanus bonus”. Che giudizio e sostegno si può trarre dal raffronto tra questi due testi?
I due testi, oltre al già citato comune fondamento antropologico e teologico, sono complementari, perché applicano la stessa decisiva icona evangelica del Buon Samaritano a due situazioni estreme in cui versa l’uomo contemporaneo soprattutto in Occidente. La Samaritanus Bonus identifica il Buon Samaritano con Cristo stesso che accoglie la domanda di salute trasformandola in domanda di salvezza eterna. La Fratelli tutti mostra la decisività di questo fondamento per la vita sociale. Fa emergere la necessità della comunione e della amicizia civica per l’umano convivere, in particolare per affrontare le situazioni di scarto cui spesso sono ridotti uomini ed interi popoli.