di Francesco Inguanti
L’8 dicembre scorso, non a caso ricorrenza dell’Immacolata, papa Francesco ci ha consegnato la lettera apostolica “Patris corde” (Con cuore di Padre) in occasione del 150° anniversario della dichiarazione di San Giuseppe quale patrono della Chiesa universale.
La figura di San Giuseppe ha un posto preminente nella esperienza e nella tradizione cristiana, anche se talvolta è stata relegata in ruoli di secondo piano, forse a causa della preponderante presenza di Gesù e di sua Madre Maria.
Anche i pontefici hanno avuto una particolare predilezione. Pio IX nel 1870 n decise la dichiarazione a patrono della Chiesa, Pio XII lo ha, quindi, presentato come “Patrono dei lavoratori” e Giovanni Paolo II come “Custode del Redentore”. Papa Francesco considera Giuseppe uomo, sposo, padre, lavoratore, credente e rimette al centro l’esercizio e il compito della paternità.
La lettera ha struttura e contenuti molto chiari e facile da comprendere. Infatti, essa consta fondamentalmente di sette paragrafi che corrispondono a 7 modi con cui papa Francesco definisce san Giuseppe: “Padre amato, padre nella tenerezza, padre nell’obbedienza, padre nell’accoglienza, padre del coraggio creativo, padre lavoratore, padre nell’ombra”. Proviamo a scorrerli insieme.
Padre amato.
Il Papa spiega questo primo connotato ricordando che San Giuseppe è stato “sempre amato dal popolo cristiano, come dimostra il fatto che in tutto il modo gli sono state dedicate numerose chiese … e tanti Santi e Sante furono suoi appassionati devoti”.
Questa prima descrizione deve far riflettere quanti tra noi, e sono tantissimi, hanno una particolare devozione per la sua persona, talvolta anche per il semplice fatto che ne portano il nome. Le numerosissime manifestazioni di culto popolare presenti in tutti i nostri paesi, forse anche perché in alcuni casi sono trascesi nel folclore, andrebbero rivisitate proprio alla luce di questa lettera. Va ricordato che la festa di san Giuseppe è stata la prima ad essere colpita a marzo del 2020 dal lockdown, impedendo bruscamente le celebrazioni di riti pubblici di vario genere sia religiosi che non. Ecco perché è importante partire dal rapporto di affetto che ci lega a lui. Interrogarsi sul motivo per cui ciascuno di noi gli è affezionato non è un impeto sentimentale, ma può e deve essere l’occasione per comprendere su cosa noi fondiamo l’affetto che nutriamo per lui. E questa lettera ci è di particolare aiuto.
Padre nella tenerezza.
Il Papa per spiegare la tenerezza di San Giuseppe cita molti testi biblici; forse il più bello è il salmo 103, al versetto 13 lì dove si dice: “Come è tenero un padre verso i figli, così il Signore è tenero verso quelli che lo temono”. Dunque la tenerezza di Giuseppe verso Gesù non nasce da uno sforzo etico, ma dal suo rapporto con il Signore. Non si può voler bene per dovere, lo sanno tutti coloro che sono divenuti padri e tutti gli altri perché siamo nati figli. Più avanti il testo mette in rapporto la tenerezza con la nostra fragilità ed afferma: “Il Maligno ci fa guardare con giudizio negativo la nostra fragilità, lo Spirito invece la porta alla luce con tenerezza. E’ la tenerezza la maniera migliore per toccare ciò che è fragile in noi. . … Solo la tenerezza ci salverà dall’opera dell’Accusatore”. La storia di san Giuseppe pur nella sua brevità ci insegna che Dio così come ha operato in lui con tenerezza attraverso le sue fragilità, continua ad operare in ciascuno di noi con tenerezza, malgrado il nostro peccato. Ecco perché Giuseppe è uno di noi. Perché ha i nostri stessi limiti dentro i quali Dio opera; lo stesso fa con noi, purché noi lo acconsentiamo.
Padre nell’obbedienza.
L’aspetto dell’obbedienza di Giuseppe è tra i più difficili da affrontare perché è passata la falsa convinzione che in fondo per lui si trattava solo di fare ciò che Dio gli rivelava in sogno. Ma la Scrittura è chiara in tal senso. Giuseppe voleva ripudiare Maria, non pensava fosse opportuno andare in Egitto, non riteneva giunto il momento di tornare a casa dall’Egitto, e via dicendo. La sua obbedienza non era cieca e immotivata e quando la sua fede vacillava si appoggiava a quella di Maria. Un rapporto coniugale impastato di tanti problemi ma guidato dalla fiducia in Dio in grado di affrontare non solo e non appena i problemi quotidiani, ma un disegno così grande e misterioso che si compì il giorno di Pasqua, ma quel giorno Giuseppe era già in paradiso ad accogliere suo figlio. Papa Francesco conclude questo paragrafo con una citazione di Giovanni Paolo II tratta dalla Redemptoris custos ove si dice che Giuseppe “è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù, mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente ministro della salvezza. della salvezza”.
Padre nell’accoglienza.
Questo paragrafo mostra l’altra faccia della persona di Giuseppe: la sua capacità a dire sì, a fidarsi di Dio anche quando gli chiede cose di cui non comprende appieno il significato. Il Papa lo spiega così: “Giuseppe non è un uomo rassegnato passivamente. Il suo è un coraggioso e forte protagonismo. L’accoglienza è un modo attraverso cui si manifesta nella nostra vita il dono della fortezza che ci viene dallo Spirito Santo. Solo il Signore può darci la forza di accogliere la vita così com’è, di fare spazio anche a quella parte contradditoria, inaspettata, deludente dell’esistenza”. Papa Francesco coglie l’occasione per fare un appello al realismo cristiano “Che non butta via nulla di ciò che esiste”. Un appello quanto mai utile proprio in un periodo in cui il male sembra prevalere sul bene e la fede sembra non avere più capacità di influire sulla vita degli uomini. “La fede che ci ha insegnato Cristo – spiega il Papa – è invece quella che vediamo in San Giuseppe, che non cerca scorciatoie, ma affronta ad occhi aperti quello che gli sta capitando, assumendone in prima persona la responsabilità”. Il tema dell’accoglienza, reso concreto dalla vicenda delle migrazioni, riguarda però tutti e tutto perché non accade solo che si rifiuti l’immigrato, ma talvolta anche il povero, il collega fastidioso, il figlio non perfetto ed anche il figlio che non è ancora nato. Giuseppe aveva i suoi giusti progetti sul suo matrimoni, ma seppe modificarli per far posto a quelli di Dio. Di questo oggi c’è particolare bisogno.
Padre del coraggio creativo.
Questo è certamente il paragrafo più stimolante. Francesco spiega così cosa intende per coraggio creativo: “Esso emerge soprattutto quando si incontrano difficoltà. Infatti, davanti a una difficoltà ci si può fermare e abbandonare il campo, oppure ingegnarsi in qualche modo. Sono a volte proprio le difficoltà che tirano fuori da ciascuno di noi risorse che nemmeno pensavamo di avere”. San Giuseppe fu un “creativo” ante litteram: trovò un luogo diverso da quello preventivato per far partorire sua moglie, decise di emigrare in Egitto per sfuggire alla vendetta di Erode, insegnò un mestiere a Gesù, prima della sua predicazione pubblica. Certo sembrerebbe che tutto fosse solo una conseguenza dei suoi sogni. Ma sappiamo bene che Dio interviene nella vita di tutti noi, ma che sta a noi poi saper tradurre i suoi suggerimenti in scelte concrete. Tutti dobbiamo fare i conti con la libertà, anche san Giuseppe. Oggi c’è un gran bisogno non di un generico coraggio del tipo “tutto andrà bene”, ma di un coraggio che sappia creare condizioni migliori per vivere da soli e soprattutto insieme agli altri, rifuggendo dalla tentazione di salvarsi con le proprie forze e accettando da sfida di creare nuove condizioni e nuove opportunità, come quelle che san Giuseppe seppe promuovere e gestire.
Padre lavoratore.
Giuseppe è il patrono dei lavoratori, quindi è facile spiegare questa sua prerogativa. Ma il Papa cala Giuseppe nel mondo del lavoro di oggi caratterizzato da nuove difficoltà e nuove preoccupazioni. Dopo aver affermato che “Il lavoro sembra essere tornato a rappresentare un’urgente questione sociale e la disoccupazione raggiunge talora livelli impressionanti”, scrive che “è necessario, con rinnovata consapevolezza, comprendere il significato del lavoro che dà dignità e di cui il nostro santo è esemplare patrono”. Il lavoro cambia velocemente. Anche l’emergenza Covid ne ha mutato molte connotazioni, una fra tutte: lo smart working. Le tradizionali categorie di giudizio non sono più sufficienti. Ma a partire da cosa avverrà la nuova riformulazione? Dal profitto? Dal salario? Dal vantaggio personale? Dal bene comune? Il Papa prosegue così: “Il lavoro diventa partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione; il lavoro diventa occasione di realizzazione non solo per sé stessi, ma soprattutto per quel nucleo originario della società che è la famiglia.” Poco avanti poi offre un prezioso suggerimento: “La crisi del nostro tempo, che è crisi economica, sociale, culturale e spirituale, può rappresentare per tutti un appello a riscoprire il valore, l’importanza e la necessità del lavoro per dare origine a una nuova “normalità”, in cui nessuno sia escluso”.
Padre nell’ombra.
Quest’ultimo paragrafo è forse il più stimolante. Il Papa lo spiega quando dice da cosa è nato. “Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe. Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi …… Così Giuseppe ha esercitato la paternità per tutta la sua vita”. E poi subito dopo dice una frase che può essere considerata la cifra di tutta la sua lettera: “Padri non si nasce, lo si diventa. E non lo si diventa solo perché si mette al mondo un figlio, ma perché ci si prende responsabilmente cura di lui. Tutte le volte che qualcuno si assume la responsabilità della vita di un altro, in un certo senso esercita la paternità nei suoi confronti”. Verrebbe da dire: ovvio, scontato. Ma spesso le cose più ovvie sono quelle che si prendono in scarsa considerazione. Infatti papa Francesco dedica molto spazio a delineare la figura e il ruolo del padre nella nostra società odierna, mettendone in evidenza le difficoltà e le ovvietà, indicando in positivo le strade che ogni padre dovrebbe percorrere: introdurre il figlio all’esperienza della vita, amarlo lasciandolo libero nelle scelte, “libero anche di sbagliare e di mettersi contro di Lui”, scegliendo la via del sacrificio di sé e abbandonandosi alla fiducia in Dio, “Il mondo ha bisogno di padri, rifiuta i padroni, rifiuta cioè chi vuole usare il possesso dell’altro per riempire il proprio vuoto; rifiuta coloro che confondono autorità con autoritarismo, servizio con servilismo, confronto con oppressione, carità con assistenzialismo, forza con distruzione. Ogni vera vocazione nasce dal dono di sé, che è la maturazione del semplice sacrificio”. E per ultimo la disponibilità ad accogliere l’inedito che sta in ogni figlio. “Ogni figlio porta sempre con sé un mistero, un inedito che può essere rivelato solo con l’aiuto di un padre che rispetta la sua libertà. Un padre consapevole di completare la propria azione educativa e di vivere pienamente la paternità solo quando si è reso “inutile”, quando vede che il figlio diventa autonomo e cammina da solo sui sentieri della vita, quando si pone nella situazione di Giuseppe, il quale ha sempre saputo che quel Bambino non era suo, ma era stato semplicemente affidato alle sue cure”.
La lettera del Papa si conclude con un invito ad “accrescere l’amore verso questo grande Santo, per essere spinti a implorare la sua intercessione e per imitare le sue virtù e il suo slancio” spiegando ove fosse necessario che “la specifica missione dei Santi è non solo quella di concedere miracoli e grazie, ma di intercedere per noi davanti a Dio, come fecero Abramo e Mosè”.
Con questa lettera il Papa ha indetto “L’anno Santo di San Giuseppe”, un tempo sufficiente per comprendere attraverso questa lettera quante cose ha ancora da insegnarci San Giuseppe e cosa noi dobbiamo chiedergli per imitarlo nella santità.
L’occasione può essere opportuna anche per ricordare un’opera poco conosciuta ma molto espressiva che si trova nella chiesa di San Giuseppe ai Teatini a Palermo. Si chiama “La Buona Morte”, ed è di un autore ottocentesco quasi sconosciuto: De Pascalis. Rappresenta San Giuseppe morente tra le braccia di Gesù e accanto alla Madonna. Di San Giuseppe non sappiamo nulla dopo il giorno in cui Gesù fu smarrito nel tempio dai genitori. Vogliamo ricordarlo così: probabilmente fu l’unico ad aver avuto il privilegio di morire accanto a Gesù e alla Madonna.