di Giuseppe Buccellato, salesiano
Da parecchi anni è entrata in uso, nel linguaggio di quanti si occupano di scienze della formazione, l’espressione emergenza educativa, per indicare la fatica che le generazioni precedenti provano nel trasmettere valori di riferimento e modelli di comportamento alle generazioni successive.
L’espressione emergenza educativa compare anche in ambito ecclesiale. Il 21 gennaio del 2008 l’allora Pontefice Benedetto XVI, nella sua Lettera alla Diocesi e alla città di Roma sul compito urgente dell’educazione scriveva: «Cari fedeli di Roma ho pensato di rivolgermi a voi con questa lettera per parlarvi di un problema che voi stessi sentite e sul quale le varie componenti della nostra Chiesa si stanno impegnando: il problema dell’educazione. Abbiamo tutti a cuore il bene delle persone che amiamo, in particolare dei nostri bambini, adolescenti e giovani. Sappiamo infatti che da loro dipende il futuro di questa nostra città […]. Educare però non è mai stato facile, e oggi sembra diventare sempre più difficile. Lo sanno bene i genitori, gli insegnanti, i sacerdoti e tutti coloro che hanno dirette responsabilità educative. Si parla perciò di una grande “emergenza educativa”, confermata dagli insuccessi a cui troppo spesso vanno incontro i nostri sforzi per formare persone solide, capaci di collaborare con gli altri e di dare un senso alla propria vita».
Non è passata neanche una settimana da quando ho accolto, con grande costernazione, la notizia che un caro amico, un professionista che insegna per vocazione a Torino in una scuola professionale, è finito in ospedale per le percosse ricevute da una sua alunna, poco più che diciottenne, indispettita da un suo garbato rimprovero.
A parte questi casi “estremi” rimane il fatto che, come viene sottolineato da più parti, l’emergere dell’istanza educativa è un segno dei tempi che spinge l’Italia intera, e questo nostro mondo globalizzato, a considerare la formazione delle nuove generazioni al centro dell’attenzione e dell’impegno di ciascuno, secondo le rispettive responsabilità e nel quadro di un’ampia convergenza di intenti.
In questo contesto mi è sembrato di ritrovare, nella pedagogia spirituale dell’attuale pontefice, manifestata con continuità nei tantissimi discorsi rivolti in questi anni ai giovani, una convinzione di fondo che ha evocato in me i riflessi di una pedagogia donboschiana: un’autentica educazione deve essere in grado di parlare al bisogno di significato e di felicità dei giovani.
Non è più proponibile, o forse non lo è mai stata, un’etica del dovere che parta da un sistema di leggi immutabili, di obblighi fondati solo sulla autorità dell’educatore.
Il messaggio del Nuovo Testamento, infatti, pone l’accento sulla forza e sulla pienezza della gioia (cfr Gv 17,13) donata dalla fede e dalle sue opere, gioia infinitamente più grande di quella che offre il mondo. Il compito dell’educatore cristiano è diffondere la buona notizia che la vita buona del Vangelo può riempire il cuore di un uomo, di una donna; si tratta di testimoniare la convinzione profonda che la vera felicità non si trova nelle allettanti proposte della civiltà dei consumi, ma scaturisce dal dono generoso di sé, da una vita ricevuta e donata per la gioia dei nostri compagni di viaggio.
DA DON BOSCO A SCUOLA DI «PEDAGOGIA DELLA GIOIA»
Nonostante Don Bosco abbia a volte, personalmente e nella sua azione apostolica, «pagato il prezzo» ad una spiritualità, quella dell’ottocento, spesso più attenta al tema della beatitudine dopo la morte che a quella della felicità su questa terra, è innegabile che il clima nel quale cresce e si sviluppa la proposta di santità che Don Bosco fa ai giovani e a tutto il movimento spirituale che da lui ha avuto origine, è pervaso dalla convinzione che la vita cristiana contiene in sé il segreto dell’autentica gioia.
Nella introduzione a Il Giovane Provveduto, il diffuso manuale di preghiera per giovani edito per la prima volta da Don Bosco nel 1847 e che conobbe oltre centoventi tra edizioni e ristampe durante la vita del fondatore, il grande educatore piemontese scrive: «Il primo inganno con cui il demonio suole allontanare i giovani dalla virtù è far loro venir in mente che il servire l Signore consista in una vita malinconica e lontana da ogni divertimento e piacere. Non è cosi, giovani cari. Io voglio insegnarvi un metodo di vita cristiano, che sia nel tempo stesso allegro e contento, additandovi quali siano i veri divertimenti e i veri piaceri, talché voi possiate dire col santo profeta Davide: serviamo il Signore in santa allegria. Tale appunto è lo scopo di questo libretto, servire al Signore e stare sempre allegri».
Scrive ancora più avanti nel medesimo manuale: «Vi presento un metodo di vivere breve e facile, ma sufficiente perché possiate diventare la consolazione dei vostri parenti, l’onore della patria, buoni cittadini in terra per essere poi un giorno fortunati abitatori del cielo». A conclusione di questa introduzione scrive: «Vivete felici, e il Signore sia con voi!».
Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri… Questo è certamente uno degli slogan più conosciuti della tradizione salesiana; questa gioia scaturisce dalla capacità di evitare tutto ciò che ci male, che ci rende schiavi di noi stessi, «che ci deruba della grazia di Dio e della pace del cuore».
Ogni educatore si trova allora quotidianamente dinanzi a questa sfida: non si possono minacciare castighi per convincere i giovani a restare lontani dal male, non si devono invocare categorie moralistiche e, peraltro, incomprensibili nella prospettiva di quel soggettivismo radicale che è una delle principali caratteristiche dell’epoca postmoderna; occorre, invece, trovare argomenti per arricchire di convincenti motivazioni la scelta del bene. Si tratta, in buona sostanza, di dimostrare che il «contrario» del peccato vale di più, che il bene fa bene e che il male fa male… Non si tratta di un banale gioco di parole, ma di una convinzione profonda che può essere messa alla base di una nuova etica della felicità.
Una certa spiritualità della rinunzia, infatti, del combattimento spirituale, dell’agire contro le proprie inclinazioni e i propri desideri, ha convinto molte generazioni di cristiani di non avere nemmeno il diritto di desiderare la propria felicità. Un uomo molto devoto mi disse un giorno, con aria sconfitta: «Padre, non capisco perché tutto quello che mi piace veramente… o mi fa male oppure è peccato!».
Eppure il cristianesimo non è altro, in ultima analisi, che una proposta di felicità. «Non è forse Cristo – leggiamo nella Novo millennio ineunte al n. 9 – il segreto della vera libertà e della gioia profonda del cuore?». Scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica al n. 1718: «Le beatitudini rispondono all’innato desiderio di felicità. Questo desiderio è di origine divina: Dio l’ha messo nel cuore dell’uomo per attirarlo a sé, perché egli solo lo può colmare».
PER CONTINUARE A SCOMMETTERE SULL’EDUCAZIONE…
In questi tempi non facili gli educatori devono essere molto attenti nel sapere argomentare in modo adeguato ogni norma, ogni indicazione, ogni valore, senza mai dare nulla per presupposto; solo questa pazienza educativa può restituire ai giovani la convinzione profonda che i veri valori e la felicità abitano allo stesso indirizzo…
Si tratta, anche in questo caso, di uno dei principi portanti del sistema preventivo di San Giovanni Bosco, che si fonda sui tre cardini della ragione, della religione e della amorevolezza (amore reso visibile, manifestato). Il termine ragione dice, per Don Bosco, apertura al dialogo capacità di persuasione, in opposizione a costrizione e imposizione. La ragione aiuta a valutare tutte le cose con senso critico, a scoprire il valore autentico dei nostri comportamenti, a distinguere la vera gioia, dal piacere o dal divertimento.
La sfida che ci aspetta, in questa epoca del pensiero debole, è quella di continuare a proporre, senza sconti, la buona notizia del Vangelo, con le sue esigenze, ma mettendo sempre al primo posto l’amore paterno di Dio e il suo desiderio di vederci felici.
Questa convinzione di felicità può sostenere anche le nostre personali motivazioni, il nostro difficile compito, anche nel tempo dei nostri piccoli o grandi fallimenti educativi. Ancora una volta, riprendendo il titolo di una splendida lettera del compianto Cardinale Martini, dobbiamo ripeterci, con convinzione, che educare è bello e che l’impresa che ci è stata affidata, molto al di là del deludente consenso sociale, è davvero la più importante, preziosa ed avvincente della umana società.
Volete fare una cosa buona? Educate la gioventù Volete fare una cosa santa? Educate la gioventù! Volete fare cosa santissima? Educate la gioventù!