Sulla soglia della coscienza di Adrien Candiard

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di Francesco Inguanti

“Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire ma a dare pieno compimento” (Matteo 5, 17)

Questa famosa espressione di Gesù può essere assunta come chiave di lettura per gustare e meditare il recente libro di Adrien Candiard, appena tradotto dal francese per conto della Emi col titolo Sulla soglia della coscienza. La libertà del cristiano secondo Paolo (pagine 128, euro 13).

Prima di parlare del libro qualche parola va spesa sull’autore, già noto al pubblico italiano per il testo Pierre e Mohamed saggio dedicato alle figure del vescovo di Orano Claverie e del suo giovane autista musulmano, morti in un attentato di matrice islamista nel 1996. Dal libro di Candiard è stata ricavata una pièce teatrale, rappresentata con oltre mille repliche Candiard, nato a Parigi nel 1982, nel 2006 si è fatto domenicano, dopo una importante esperienza politica e sociale, e da alcuni anni risiede al Cairo. Il testo è frutto di un dialogo realizzato nel 2018 con un gruppo di giovani cristiani francofoni della capitale egiziana.

Ciò che colpisce fin dall’inizio della lettura è la franchezza con cui l’autore affronta un tema senza dubbio spinoso e delicato: il rapporto tra legge e fede.

Decide a tal fine di rileggere l’episodio di Filemone e Onesimo, di cui alla famosa Lettera a Filemone, che lui lamenta di essere poco conosciuta, “probabilmente perché la si legge troppo in fretta”. Un testo a suo dire che “dovrebbe essere letto, conosciuto, letto da tutti i cristiani, citato in tutte le omelie, trovarsi in ogni comodino, essere spiegato al catechismo”.

Il libro inizia con una breve ed efficace descrizione della vicenda: Onesimo schiavo di Filemone fugge e trova riparo in Paolo, il quale lo accoglie, lo battezza e lo rimanda da Filemone non contestandogli il fatto che detenga uno schiavo, ma invitandolo ad accoglierlo “non come schiavo, ma molto di più che schiavo, come fratello carissimo … come fratello nel signore”.

Il passo successivo dovrebbe spiegare il perché di questa decisione così contro corrente. Ma l’autore lo fa cercando di spiegare chi è Paolo, che cosa è divenuto dopo l’incontro sulla via di Damasco, come è cambiato il suo modo di ragionare e giudicare dopo la sua conversione. Lo descrive così: “La sua conversione non è consistita nel passaggio da una dottrina ad un’altra, ancor meno in un cambio di appartenenza da un gruppo all’altro. Paolo non ha cambiato Dio, che rimane lo stesso: … Dio non è cambiato molto: è Paolo che con la conversione non è più lo stesso. È così differente, ora, che è difficile capirlo senza ritornare a quell’evento iniziale: se vogliamo capire quel che scrive a Filemone, dobbiamo ritornare alla sua nuova nascita sulla via di Damasco”. Le pagine seguenti descrivono il percorso spirituale e culturale che Paolo ha affrontato e attraversato per giungere alla piena consegna della sua vita a Gesù Cristo. Un percorso né semplice né lineare anche perché commenta “egli era tutto ingombro si sé”.

Candiard inizia a questo punto ad inserire nella sua narrazione persone e fatti scelti fra i tanti personaggi che incontrando Gesù dovettero confrontarsi con la dialettica: principi legislativi e principi evangelici.

Decide di partire forse dal più famoso, il giovane ricco, nei cui confronti Gesù fu esigente tanto quanto con Paolo. Ma c’è una differenza, dice Adrien Candiard: “Paolo è il giovane ricco del Vangelo, ma il giovane ricco che dice sì a Dio, che abbandona tutto e si mette alla sequela di Cristo”. Per Candiard Paolo “non può più vivere come se Dio non ci fosse”. E poi spiega: “Un colpo di fulmine amoroso ci trasforma più profondamente della lettura del Codice penale. Paolo farà il bene non perché teme il gendarme divino o perché cerca di meritarsi il suo amore condizionato, ma perché trabocca di questo amore che ha appena ricevuto nel centro del cuore”.

L’autore non tralascia il racconto di vicende personali, cui rimandiamo i lettori, per dimostrare l’attualità della dialettica a fondamento della sua opera. Si pone poi un’altra domanda: come mai Paolo, di cui è noto l’atteggiamento sanguigno, nella circostanza “fa il gentile”? E si risponde così: “Ma c’è una cosa che Paolo non può fare: forzare una coscienza”.

A questo punto inserisce la rilettura di un’altra vicenda molto nota e molto simile a quella di Filemone: il dialogo tra Adamo ed Eva e Dio, dopo il peccato originale affrontando un’altra dialettica, quella tra proibito e impossibile. “L’errore di Adamo ed Eva è confondere il proibito con l’impossibile. Dio dice loro che è impossibile magiare il frutto e vivere; loro capiscono che mangiare il frutto è proibito, anche se a loro farà bene. Tutti i comandamenti di Dio, peraltro, non fanno che allertare su ciò che è impossibile. La tentazione è sognare un altro mondo, un mondo in cui l’impossibile non esista… Un mondo in cui ci si possa drogare e restare liberi, … in cui si possa uscire a cena con l’affascinate stagista dell’ufficio e rimanere padri di famiglia esemplari; in cui si possa essere al contempo ladri e fieri di sé… Un mondo in cui essere peccatori e felici”. Come dargli torto? Quanti sono gli esempi della nostra vita personale e sociale che si potrebbero associare a questo modo di ragionare? L’autore conclude così il suo ragionamento: “…noi continuiamo a credere che il male sta nella trasgressione, mentre è il peccato in sé che ci distrugge”.

A questo punto entra in scena un altro personaggio famoso del Vangelo, Zaccheo, anch’egli alle prese col rispetto della legge. Candiard dopo aver precisato che Gesù non è venuto a fargli la morale conclude: “Gesù … non gli ha detto che rubare è male. Si è semplicemente autoinvitato a casa sua. L’ha guardato con amicizia, e quell’amicizia ha cambiato tutto. Ecco perché nella vita cristiana non esiste vita morale senza vita spirituale”. Il tema dell’amicizia accompagnerà il lettore fino alla fine del libro.

In una intervista rilasciata di recente il frate domenicano ha ulteriormente chiarito questo punto: “La fraternità non è la stessa cosa dell’amicizia. L’amicizia è il frutto di una scelta. Invece la fraternità ci è data, è costitutiva. Io la sperimento con i miei confratelli frati domenicani, innanzitutto, qui al Cairo dove mi hanno chiesto di venire. È come in una famiglia, nessuno chiede di avere fratelli o sorelle. Li troviamo e gli vogliamo bene, sennò la vita sarebbe impossibile”

Ma giunti a metà del libro ecco un capitolo a dir poco inatteso. Candiard ne è consapevole e lo intitola infatti così: “Cosa c’entra la castità”. Sono forse le pagine più belle, certo le più affascinati e stimolanti, quelle in cui l’autore, proseguendo nel solco del tema dell’amicizia, afferma che “l’evangelizzazione è prima di tutto una questione di amicizia”, come lo fu per Zaccheo e Gesù. Spiegando poi così cosa intende per amicizia dice come non basta volere bene agli altri per fare il loro bene.

Tornando a Paolo e Filemone aggiunge: “Paolo, che ha tanto a cuore il rispetto della libertà di Filemone, conosce bene la differenza tra un apostolo e un guru. Questo perché alla sua amicizia sincera aggiunge una virtù decisiva e delicata, della quale in queste circostanze fa prova: la virtù della castità”. Seguono pagine molto intense in cui emerge in chiaroscuro la sua esperienza di educatore tra i giovani nelle quali il tema della castità è affrontato in tante sfaccettature, sempre evitando gli scogli delle norme e delle regole, per affermare l’importanza delle libertà e della responsabilità.

Una sintesi del suo pensiero può essere costituito da questa frase. “La castità non è l’assenza di relazioni sessuali: secondo la definizione più classica, essa consiste nell’amare nell’altro nulla più che sé stesso. È amarlo per quello che è, non per quello che apporta in me. Ci sono forme di amare che sono forme di divorare – come quando si dice che si ama la carne, o il cioccolato. E servirmi della persona che dico di amare per il mio semplice piacere sessuale è solo una delle numerose forme possibili di consumazione dell’altro: promozione sociale, rassicurazione narcisistica, vita per procura … Il catalogo è infinito, non c’è che da servirsi. E posso talora accecarmi al punto di credere che questo modo di fare si chiama amore”.

Prima di concludere l’autore introduce un altro splendido dialogo, quello tra Marta e Maria. Anche in questo caso il suo intendimento è spiegare perché Marta non sbaglia, ma semplicemente non capisce. Tornando ancora una volta al necessario ribaltamento della nostra logica afferma che “la logica del Vangelo è quella del regalo, e il regalo non è una faccenda di giustizia”. Ci spiega infatti che la nostra tentazione è avere con Dio una relazione “commerciale”, quella del Do ut des “secondo la più perfetta giustizia contabile”, ed invece la logica è quella del suo amore per noi che viene prima di quella nostra per Lui. In modo lapidario aggiunge: “Il problema di Marta non è che stesse in cucina invece che in salotto; è che in cucina si occupava di cucina senza cercarvi Cristo”. E poi spiega con maggior chiarezza: “Perché si può cucinare in due maniere differenti: per realizzare il piatto a regola d’arte, o per far piacere agli invitati; non sono cose slegate, perché, in generale, per far piacere agli ospiti bisogna presentare al meglio le portate, ma la disposizione d’animo è, direi, molto differente. Nel primo caso cucinare un buon cibo, nell’altro cucinare comunione”.

Solo a questo punto l’autore affronta il tema che a noi sembra sempre il più importante, quello della politica, e nella fattispecie dell’abolizione della schiavitù, ricordando che duemila anni fa essa era un perno essenziale della convivenza civile e sociale, e ribadendo che solo l’essere fratelli in Cristo consente di superare egregiamente il problema.

L’ultima parabola rivisitata è quelle del debitore, raccontata in Matteo, 18,21-35. La lasciamo alla lettura personale.

Per quanto l’ultimo capitolo si intitoli “Conclusione”, il libro non offre una conclusione, da cui l’autore rifugge fin dall’inizio. Contiene uno stimolante paragone con la vicenda del Grande Inquisitore di Dostoevskij, narrata ne “I fratelli Karamazov”, per far vedere come la Chiesa corra spesso il rischio di non valorizzare abbastanza la lezione di libertà che viene dal Vangelo. Chiude così: “La scommessa di Dio è folle. Preferire che l’uomo lo ami liberamente, invece di giocare con lui come un bambino con i suoi Playmobil, non ha senso”. Infatti, a noi appare un controsenso, ma è la logica di Dio.

 

 

 

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