Pubblichiamo oggi un commentoe del professor Giuseppe Vecchio dell’Università di Catania in occasione del trentesimo anniversario della pubblicazione dell’Enciclica di Giovanni Paolo II Centesimus annus.
Di Giuseppe Vecchio
Ricordare il trentesimo anniversario dell’enciclica Centesimus Annus impone un richiamo alla stessa intitolazione celebrativa (contenuta nel titolo) dell’enciclica Rerum Novarum. Ovviamente, non si tratta di un semplice riferimento cronologico, ma di un richiamo alla complessa evoluzione della teologia morale in materia di sollecitudine per la questione sociale, elaborata dal Magistero dal 1891 ai nostri giorni.
Non si ha la pretesa di ricostruire in poche righe un processo culturale che manifesta la profondità dell’incarnazione della Chiesa nelle relazioni sociali, a partire dalla comprensione e dalla condivisione dei drammi della persona umana nel contesto storico contemporaneo.
Proprietà e appartenenza comune dei beni
A partire dal lessico del Magistero, può essere utile rilevare il ricorso a termini come ‘condizione operaia’, ‘proprietà’, ‘produzione industriale’, ‘Stato’ per affrontare le novità che hanno caratterizzato le trasformazioni sociali a partire dalla seconda metà del XIX secolo.
Attorno a questi termini si sviluppa tutta l’elaborazione che parte dalla Rerum Novarum e arriva, solo per segnare uno degli insegnamenti più recenti, all’Omelia della domenica della Misericordia del 2021. Diversamente da quello che si può riscontrare nelle narrazioni correnti, ‘condizione operaia’, ‘proprietà’, ‘industria’, pur nelle varie evoluzioni che si sono succedute nell’arco di centotrent’anni, rappresentano elementi essenziali della rappresentazione della condizione umana nel mondo industriale che tendeva già alla globalizzazione sin dai tempi di maturazione della Rerum Novarum.
A sua volta, la concezione moderna dello ‘stato’, che viene esposta a partire dall’enciclica di Leone XIII, rappresenta un progetto profondamente innovativo, radicalmente contrapposto alle concezioni (allora dominanti) derivate da Hobbes e da Hegel.
A partire dalla Rerum Novarum, la persona umana con la sua dignità viene riproposta come centro delle relazioni che si rimodulano in presenza di nuove e inusitate capacità produttive e tecnologiche.
Se si riflette un attimo sui termini ai quali abbiamo fatto riferimento rispetto alle concezioni dell’età precedente, si può cogliere tutta la loro capacità di comprensione e rappresentazione della rivoluzione ottocentesca.
‘Proprietà’, nella sua accezione successiva al codice civile napoleonico, è concetto elaborato e affermato solo nel corso dell’Ottocento, con la forza delle rivoluzioni liberali. Esso si contrapponeva alle concezioni del ‘dominio’ sulla terra, di origine feudale e ancora, idealmente, associate ad un regime di appartenenza comune dei beni. Il Magistero (dalla Rerum Novarum, al Radiomessaggio di Pentecoste del 1941, alla Populorum Progressio, fino all’Omelia della Misericordia del 2021, solo per fare alcuni riferimenti) coglie la complessità della concezione della ‘proprietà’ e fa esplicito riferimento all’originaria appartenenza comune dei beni. Il riferimento stabile è a Levitico, 25 (23-24), Le terre non si potranno vendere per sempre, perché la terra è mia e voi siete presso di me come forestieri e ospiti. Perciò, in tutta la terra che avrete in possesso, concederete il diritto di riscatto per i terreni, e ripropone la concezione teologica fondamentale della centralità della persona umana e del carattere derivato e secondario dei diritti strumentali alla realizzazione della stessa.
La concezione della proprietà nelle Scritture (oltre che Levitico, basta ricordare Atti, 4-32) non coincide per nulla con quella proposta da Hobbes come risposta alle esigenze di stabilizzazione del potere del countryman in contrasto con il signore feudale e, ancor meno, a quella cristallizzata nel codice napoleonico e nelle successive costituzioni liberali. La proprietà del Magistero è, piuttosto, garanzia della facoltà di stabilità del rapporto con i beni produttivi, con l’abitazione, con i beni strumentali, nella misura delle necessità di stabilizzazione dell’esistenza della persona, dei suoi rapporti affettivi e sociali, di ordinate relazioni economiche.
Condizione operaia e capacità concreativa del lavoro umano
La dignità della persona umana e, soprattutto, del ruolo concreatore dell’uomo nella costruzione della ricchezza sociale è mirabilmente sottolineata nella Quadragesimo Anno nei punti nei quali specifica il rapporto fra proprietà e lavoro nella nuova dimensione delle società industriali:
(2, 53) Assai diversa è la natura del lavoro, che si presta ad altri e si esercita sopra il capitale altrui. A questo lavoro soprattutto si addice quel che Leone XIII disse essere cosa verissima: cioè che non d’altronde è prodotta la pubblica ricchezza, se non dal lavoro degli operai (enc. Rerum novarum, n. 37) e ancora (2, 54) Non può sussistere capitale senza lavoro, né lavoro senza capitale (enc. Rerum novarum, n. 16). Per cui è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro; ed è affatto ingiusto che l’uno arroghi a sé quel che si fa, negando l’efficacia dell’altro.
La ricorrenza di formule di riferimento alla specificità della ‘condizione operaia’ nel corso di più di cento anni, a prescindere dalle diverse espressioni linguistiche utilizzate, è il sintomo più interessante dell’elaborazione di una specifica teologia della persona umana nella sua particolare manifestazione di ‘operaio’, cioè di persona inserita in un circuito produttivo rispetto al quale non ha titolarità degli strumenti (come sarebbe per l’artigiano) e non ha titolarità del governo dei processi.
Il Magistero aveva quasi costantemente tenuto un atteggiamento di distacco e di prudenza, quanto non di esplicita condanna, nei confronti della schiavitù applicata dagli stati cattolici. Probabilmente, sulla base della lezione del Levitico (25), l’idea di schiavitù veniva associata a quella di cittadinanza (non si potevano ridurre in schiavitù gli Ebrei, si potevano trattare come ‘braccianti’ e potevano essere riscattati nell’anno giubilare). L’idea di ‘condizione operaia’, invece, fa riferimento ad una relazione di tipo completamente diverso: essa individua la condizione di persone (gli operai) formalmente libere e, tuttavia, sottoposte ad un regime vessatorio ingiusto. La rappresentazione della ‘condizione operaia’ della Rerum Novarum è profetica in almeno due sensi.
Da un lato, essa ha colto le radicali trasformazioni della condizione umana dell’operaio e ne ha fatto il presupposto per una nuova antropologia costruita sulla considerazione dei nuovi rapporti esistenziali prodotti dall’urbanesimo, dall’industrializzazione, dal lavoro salariato, ripetitivo e privo di creatività.
Dall’altro, essa ha colto le linee essenziali dei processi che cominciavano ad emergere alla fine dell’Ottocento e che si sarebbero affermati con forza impetuosa nel corso del Novecento, fino alle straordinarie evoluzioni delle tecnologie dei nostri giorni.
L’attenzione del Magistero, lungo tutti i centotrent’anni dalla pubblicazione della Rerum Novarum, è stato costantemente rivolto alla teologia della persona dell’operaio (per usare il termine originario). È facile il riscontro lessicale.
‘Condizione operaia’ è una formula espressamente adottata dalla Centesimus annus in riferimento alla Rerum Novarum, che, invece, faceva riferimento alla ‘questione operaia’ e alla ‘classe’ (o meglio alle ‘classi’ e al rischio della concezione di un conflitto ‘naturale’ fra le stesse). Nella Quadragesimo Anno, si fa uso delle formule ‘condizione degli operai’ e ‘classe operaia’. Nel Radiomessaggio della Pentecoste del 1941 si fa riferimento alla ‘condizione dei lavoratori’ e alla ‘classe operaia’. Nella Mater et Magistra, la formula ‘classe’ è utilizzata per contrastare la ‘lotta di classe’. Nella Octogesima eveniens, si usano le formule ‘classe’, per stigmatizzare la ‘lotta di classe’ e ‘condizione operaia’, come traduzione della Rerum Novarum.
Stato e sussidiarietà
La terza riflessione per la celebrazione degli anniversari delle encicliche sociali è quella che si riferisce alla concezione moderna dello stato e alla novità della presenza sulla scena pubblica della soggettività sociale del lavoro ‘operaio’. Le ‘novità’ colte da Leone XIII coinvolgevano tutta l’antropologia, ma davano un particolare rilievo al quadro che veniva definito dai problemi dell’appartenenza dei beni (specie di produzione), del lavoro dipendente (operaio) e del governo delle relazioni sociali ed economiche.
La Rerum Novarum esprimeva la consapevolezza della portata determinante dei processi economici, sociali e politici in corso sulla libertà e sulla vita privata. L’enciclica veniva dopo le altre due molto impegnative sulla reciproca indipendenza della Chiesa e dello Stato nel sistema sociale contemporaneo (Immortale Dei, 1885) e sulle libertà dei moderni (Libertas, del 1888). Rispetto alle altre due, tuttavia, si presentò subito come molto più incisiva sul piano della riflessione teologica morale in materia di relazioni sociali.
La ricostruzione attenta dei processi economici e sociali dell’età industriale consentì di sviluppare una riflessione globale, soprattutto, sulla legittimazione dello Stato (liberale) che si apprestava a diventare ‘etico’ nel governo dei rapporti economici e sociali e sulla libertà dei singoli e delle formazioni sociali.
La coerenza interna della Rerum Novarum, costantemente mantenuta e arricchita dalle encicliche successive, consiste proprio nella capacità di cogliere i collegamenti necessitati fra i vari profili di quelle ‘novità ‘ che emergeva o già alla fine dell’Ottocento e che avrebbero determinato la storia del secolo successivo.
La profezia della Rerum Novarum consiste proprio nella capacità di prevedere le catastrofi nelle quali sarebbe incorsa l’umanità per effetto di visioni conflittuali delle relazioni sociali e dei tentativi di riutilizzare il vecchio modello dello stato liberale come strumento di governo di ‘classi’ (asseritamente) vincitrici di singole fasi dello scontro.
La proposta alternativa all’affermazione degli stati che si sono proclamati ‘etici’ e, per questo stesso totalitari e antipluralisti, fu, ed è ancora, quella di un modello di convivenza sociale fondato sul primato della persona e delle sue naturali manifestazioni aggregative scaturenti dalla prossimità e dalla condivisione.
La parola che esprime l’indicazione fondamentale, pur se non contenuta nella Rerum Novarum, è ‘sussidiarietà‘. Seppure non utilizzata nelle prime encicliche sociali, essa richiama e condensa l’insegnamento leonino e costituisce il riferimento stabile dei successivi documenti del Magistero.
‘Sussidiarietà’ è un termine diffusamente utilizzato a partire dai primi anni del Seicento nell’esperienza calvinista di Althusius. Il riferimento principale è, comunque, costituito dall’insegnamento tomistico sulla centralità della persona. Il principio di legittimazione dal basso delle decisioni pubbliche, ovviamente, non fu particolarmente apprezzato durante l’età dell’assolutismo. La concezione dello Stato-Nazione, già sostenuta da Bodin, dominò fino alla seconda metà dell’Ottocento, mitigata, in parte, dall’introduzione di limitate forme di democrazia, come quelle degli stati liberali.
È solo con la Rerum Novarum che il pensiero politico di ispirazione cattolica trova sistemazione nell’insegnamento della Chiesa.
- Non è giusto, come abbiamo detto, che il cittadino e la famiglia siano assorbiti dallo Stato: è giusto invece che si lasci all’uno e all’altra tanta indipendenza di operare quanta se ne può, salvo il bene comune e gli altrui diritti. Tuttavia, i governanti debbono tutelare la società e le sue parti. La società, perché la tutela di questa fu da natura commessa al sommo potere, tanto che la salute pubblica non è solo legge suprema, ma unica e totale ragione della pubblica autorità; le parti, poi, perché filosofia e Vangelo si accordano a insegnare che il governo è istituito da natura non a beneficio dei governanti, bensì dei governati. (…)
Se dunque alla società o a qualche sua parte è stato recato o sovrasta un danno che non si possa in altro modo riparare o impedire, si rende necessario l’intervento dello Stato.
29 (…) ciò significa che le leggi non devono andare al di là di ciò che richiede il riparo dei mali o la rimozione del pericolo. I diritti vanno debitamente protetti in chiunque li possieda e il pubblico potere deve assicurare a ciascuno il suo, con impedirne o punirne le violazioni. Se non che, nel tutelare le ragioni dei privati, si deve avere un riguardo speciale ai deboli e ai poveri. Il ceto dei ricchi, forte per sé stesso, abbisogna meno della pubblica difesa; le misere plebi, che mancano di sostegno proprio, hanno speciale necessità di trovarlo nel patrocinio dello Stato. Perciò agli operai, che sono nel numero dei deboli e dei bisognosi, lo Stato deve di preferenza rivolgere le cure e le provvidenze sue.
Per poi pervenire al punto decisivo:
- C) L’opera delle associazioni
1 – Necessità della collaborazione di tutti
- Finalmente, a dirimere la questione operaia possono contribuire molto i capitalisti e gli operai medesimi con istituzioni ordinate a porgere opportuni soccorsi ai bisognosi e ad avvicinare e udire le due classi tra loro. Tali sono le società di mutuo soccorso; le molteplici assicurazioni private destinate a prendersi cura dell’operaio, della vedova, dei figli orfani, nei casi d’improvvisi infortuni, d’infermità, o di altro umano accidente; i patronati per i fanciulli d’ambo i sessi, per la gioventù e per gli adulti. Tengono però il primo posto le corporazioni di arti e mestieri che nel loro complesso contengono quasi tutte le altre istituzioni. Evidentissimi furono presso i nostri antenati i vantaggi di tali corporazioni, e non solo a pro degli artieri, ma come attestano documenti in gran numero, ad onore e perfezionamento delle arti medesime. I progressi della cultura, le nuove abitudini e i cresciuti bisogni della vita esigono che queste corporazioni si adattino alle condizioni attuali. Vediamo con piacere formarsi ovunque associazioni di questo genere, sia di soli operai sia miste di operai e padroni, ed è desiderabile che crescano di numero e di operosità.
La Quadragesimo Anno, a sua volta, precisa che non deve essere fatto dallo stato ciò che può essere autonomamente fatto dalle organizzazioni sociali:
- E quando parliamo di riforma delle istituzioni, pensiamo primieramente allo Stato, non perché dall’opera sua si debba aspettare tutta la salvezza, ma perché, per il vizio dell’individualismo, come abbiamo detto, le cose si trovano ridotte a tal punto, che abbattuta e quasi estinta l’antica ricca forma di vita sociale, svoltasi un tempo mediante un complesso di associazioni diverse, restano di fronte quasi soli gli individui e lo Stato. E siffatta deformazione dell’ordine sociale reca non piccolo danno allo Stato medesimo, sul quale vengono a ricadere tutti i pesi, che quelle distrutte corporazioni non possono più portare, onde si trova oppresso da una infinità di carichi e di affari.
È vero certamente e ben dimostrato dalla storia, che, per la mutazione delle circostanze, molte cose non si possono più compiere se non da grandi associazioni, laddove prima si eseguivano anche dalle piccole. Ma deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare
Nella Caritas in veritate si afferma
“Manifestazione particolare della carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti è senz’altro il principio di sussidiarietà, espressione dell’inalienabile libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso l’autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l’intima costituzione dell’essere umano, la sussidiarietà è l’antidoto più efficace contro ogni forma di assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione e a orientarla verso un vero sviluppo umano”
Per poi culminare nella Centesimus Annus,
15 (…) Al conseguimento di questi fini lo Stato deve concorrere sia direttamente che indirettamente. Indirettamente e secondo il principio di sussidiarietà, creando le condizioni favorevoli al libero esercizio dell’attività economica, che porti ad una offerta abbondante di opportunità di lavoro e di fonti di ricchezza. Direttamente e secondo il principio di solidarietà, ponendo a difesa del più debole alcuni limiti all’autonomia delle parti, che decidono le condizioni di lavoro, ed assicurando in ogni caso un minimo vitale al lavoratore disoccupato.
Appartenenza comune dei beni, concreazione, sussidiarietà
I tre concetti che si è provato a richiamare costituiscono cardini fondamentali del Magistero sulla centralità della persona umana, della persona umana che concorre all’attuazione dell’opera creatrice, dei diritti inalienabili alla partecipazione nel processo di governo delle relazioni.
Ogni altra istituzione e ogni altro diritto è strumentale alla realizzazione della persona e, quindi,
- (…) Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica.
- Da ciò risulta l’urgenza di trovare una soluzione per tutto quello che attenta contro i diritti umani fondamentali. I politici sono chiamati a prendersi «cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone. Prendersi cura della fragilità dice forza e tenerezza, dice lotta e fecondità in mezzo a un modello funzionalista e privatista che conduce inesorabilmente alla “cultura dello scarto”. Significa farsi carico del presente nella sua situazione più marginale e angosciante ed essere capaci di ungerlo di dignità». Così certamente si dà vita a un’attività intensa, perché «tutto dev’essere fatto per tutelare la condizione e la dignità della persona umana». Il politico è un realizzatore, è un costruttore con grandi obiettivi, con sguardo ampio, realistico e pragmatico, anche al di là del proprio Paese. (…) Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti questi flagelli». Questo si fa sfruttando con intelligenza le grandi risorse dello sviluppo tecnologico.