Sanguis martytrm semen christianorum: la testimonianza di Rosario Livatino

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di Luigi Lo Valvo Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Gela

Rosario Livatino, nato il 3 ottobre 1952 da Vincenzo Livatino e Rosalia Corbo. Fin da piccolo viene educato ai valori cristiani e al rispetto della legge. Inizia la sua carriera presso il Tribunale di Caltanissetta (che gli intitolerà, insieme ad Antonino Saetta, l’Aula Magna) per poi svolgere le funzioni di sostituto procuratore prima e di giudice poi presso il Tribunale di Agrigento.

Livatino è un esempio di vita per tutti i magistrati oltre che per noi credenti. È uno dei 27 magistrati uccisi dalle organizzazioni mafiose o terroristiche. Nato a Canicattì, città che ha dato i natali a due magistrati uccisi dalla Mafia. Infatti, il 25 settembre del 1988 Cosa Nostra uccide Antonino Saetta. Ebbene, ai funerali di quest’ultimo, mons. Luigi Bommarito, arcivescovo di Catania e Amministratore Apostolico di Agrigento, rivolgendosi al Presidente della Repubblica Cossiga, disse: “Chi sarà il prossimo?”.

A quel funerale era presente Livatino che, con ogni probabilità, ben sapeva che sarebbe stato lui il prossimo. E tuttavia mai indietreggiò. Continuò ad occuparsi, con la stessa passione, energia, scrupolo e vigore, dei processi di criminalità organizzata e di delicatissimi processi per reati contro la pubblica Amministrazione. Era un magistrato integerrimo, severo ma giusto. Spesso utilizzava le ferie per completare a casa il lavoro e scrivere le requisitorie (e poi le sentenze). Inflessibile con tutti.

In un’occasione, in presenza di alcuni lontani parenti che gli chiesero un trattamento di favore per un loro parente che era stato arrestato, Livatino li mise alla porta. In altra occasione, quando un sacerdote a lui molto vicino, chiese, probabilmente per ingenuità, di adoperarsi per risolvere una questione di poco conto, il Livatino rispose: “Ma padre, lei quando confessa accetta raccomandazioni?”.

Come magistrato viene ricordato l’episodio in cui si recò personalmente, un 16 di agosto, presso il carcere di Agrigento per notificare l’ordine di remissione in libertà di un detenuto. Le guardie carcerarie, stupite, gli dissero che poteva attendere il giorno successivo ma lui rispose che quell’uomo aveva pagato il suo conto con la giustizia e quindi non doveva stare in carcere un solo giorno in più.

Livatino si occupò di indagini di criminalità organizzata molto serie e gli omicidi erano all’ordine del giorno. E dinanzi ad un boss mafioso morto assassinato, in presenza di un dirigente della polizia che quasi festeggiava per la morte di un delinquente, Livatino, con tono di voce insolitamente duro, disse: “Chi crede prega, chi non crede sta in silenzio”.

In fondo, per quanto erano anni in cui vigeva la regola “Mors tua vita mea” ed in cui Livatino era consapevole dei rischi che correva, era pur sempre consapevole che ogni uomo merita rispetto. Il magistrato Livatino schivava la celebrità: lavorava in silenzio, con umiltà e senza montarsi la testa. Consapevole dei rischi che lui e i suoi colleghi correvano, si faceva assegnare dal Procuratore i procedimenti più rischiosi in modo da evitare che tali rischi li corressero colleghi sposati e con famiglia. Anche la scelta di non sposarsi fu una scelta di vita, per quanto sofferta. Livatino è certamente un giudice ragazzino: non nel significato dispregiativo utilizzato dal presidente della Repubblica Cossiga (che anni dopo, volle chiarire, ai genitori di Rosario, che quella frase non era rivolta al loro figlio). Era ragazzino nel senso di giovane appassionato, lontano dai centri di potere, irreprensibile, fedele agli ideali di Giustizia ed allo Stato, modello sia per le giovani generazioni di magistrati che per le meno giovani. Al riguardo mi piace ricordare la sua relazione dal titolo “Ruolo del giudice nella società che cambia” che rappresenta un po’ il suo testamento morale e spirituale. In tale relazione Livatino parlò, tra le varie cose, dell’indipendenza del giudice da ogni forma di potere, in particolare da quello politico. Livatino riteneva quindi che è dovere del magistrato quello di sottrarsi all’attività politica poiché inadatta al suo ruolo; il magistrato deve quindi astenersi dall’assumere mansioni da leader o dal rivestire qualunque carica in una organizzazione politica nonché tenere pubblicamente discorsi per un’organizzazione politica o per un suo esponente ovvero appoggiare un candidato ad una carica pubblica. In un passo di tale relazione conclude che “sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l’ufficio del giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle, con le dimissioni definitive dall’ordine giudiziario”. Inoltre, Livatino era convinto, quasi come se fosse un dogma di fede, che il magistrato deve curare la sua immagine esterna perché oltre ad esser indipendente occorre anche apparirlo. Giacché accanto ad un problema di sostanza ve ne è anche uno di forma.

Ancora “L’indipendenza del giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l’indipendenza del giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività. Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l’affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole”.

I principi sopra espressi, di straordinaria attualità, dovrebbero guidare, sempre, giorno per giorno, ogni magistrato. Ma Livatino è anche l’unico magistrato Servo di Dio e prossimo beato. La fede di Rosario ha certamente orientato tutta la sua vita e il suo modo di interpretare la missione del magistrato. Era consapevole della difficoltà di tale ruolo. Lui stesso ritiene che: “Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene, decidere è scegliere e, a volte, tra numerose cose o strade o soluzioni. E scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto per il tramite dell’amore verso la persona giudicata”.

Celebre è la sua frase “quando moriremo nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti ma quanto siamo stati credibili”. E l’essere cristiano non era per Livatino una etichetta, un cappello da mettere o dismettere a seconda delle circostanze, bensì un modo di vivere. In coerenza alla sua fede aiutava anche le famiglie bisognose di Canicattì. In maniera discreta e riservata, al collaboratore della famiglia Livatino affidava delle buste da lettera, chiuse, indicando a quali famiglie indigenti farle avere. In questo modo metteva in pratica l’insegnamento evangelico di aiutare i più bisognosi. Livatino pregava ogni giorno, era assiduo alla Messa domenicale; ha certamente vissuto anche lui, come avvenuto a tanti santi, la “notte oscura dell’anima”. Momenti di difficoltà – una sorta di deserto da attraversare per conquistare la purificazione in terra – vissuti sempre con grande fede in Dio a cui affidò la sua vita.

Su ogni agendina scriveva la frase “S.T.D.”: “Sub tutela Dei”. Sulla sua scrivania, oltre ai fascicoli processuali, trovavano posto il crocifisso e il vangelo, bussola dell’anima. Pretese inoltre che nelle le aule di giustizia fosse presente sempre il Crocifisso come richiamo alla carità, all’amore e alla rettitudine.

A Livatino ben può essere applicata la frase evangelica “Se il chicco di grano non cade per terra e non muore rimane solo; se invece muore porta molto frutto”. Ed infatti, in tanti ritengono che l’anatema contro la mafia lanciato da Giovanni Paolo II nella splendida Valle dei Templi, quello storico 9 maggio 1993, è dipeso anche dal martirio di Livatino. Infatti, poco prima di celebrare la Messa, il Grande Papa incontrò i genitori di Rosario; e fu un incontro che ha stravolto il cuore del papa polacco il quale poco dopo lancerà quello storico anatema. Anche a partire da quel momento la Chiesa cambia marcia contro la mafia: tanti vescovi e tanti sacerdoti cacciano i mafiosi dalle congregazioni e dalle confraternite. Per loro se non si convertono, non c’è posto in Chiesa. E la Mafia, purtroppo, risponderà all’anatema uccidendo Padre Pino Puglisi prima e don Peppino Diana poi. Infine le virtù cristiane di Livatino hanno portato pure al riconoscimento di un miracolo, quello di Elena Valdetara Canale, una donna straordinaria che nella sua vita ha fatto scelte generosissime, coraggiose, incomprensibili ai più. A lei è apparso in sogno Rosario Livatino, che non conosceva, il quale le disse “La forza che ti guarisce è dentro di te. Quando la troverai, potrai aiutare altri bambini”. Solo due anni dopo, leggendo un articolo di giornale, la donna capì che l’uomo in sogno non era un sacerdote bensì il giudice ragazzino. E il tumore maligno che la affliggeva dal 1993 e per il quale i medici le avevano dato pochi mesi di vita, scomparve, tanto che la donna, a distanza di quasi venti anni, è in perfetta salute. Tale guarigione, inspiegabile per la scienza, è il miracolo che si attendeva e che porterà Rosario Livatino ad essere proclamato beato.

 

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