di Francesco Inguanti
La diocesi di Monreale ha tre ospedali sul suo territorio. L’ospedale dei “Bianchi” a Corleone; l’Ospedale Civico a Partinico; l’Ospedale “G.F. Ingrassia” a Palermo.
Al loro interno opera la Cappellania ospedaliera, “espressione del servizio religioso prestato dalla comunità cristiana nell’istituzioni sanitarie”, la quale rappresenta la premura della Chiesa verso i sofferenti e quanti se ne prendono cura. Accompagna i malati, curando le ferite che la malattia apre non solo nel fisico, ma anche nella psiche, nello spirito, nella vita di relazione umana.
I cappellani che ne fanno parte curano:
- l’incontro giornaliero coi pazienti ricoverati passando in tutti i reparti per un ascolto fraterno, un dialogo comprensivo, la condivisione delle paure, delle sofferenze, delle speranze, delle gioie…
- l’attenzione ecumenica alle persone di altre confessioni religiose;
- la proposta dei Sacramenti di guarigione: Confessione e Unzione degli Infermi e Eucaristia;
- la celebrazione della S. Messa;
- il colloquio con i familiari dei ricoverati;
- il rapporto di collaborazione con gli operatori sanitari;
- il coinvolgimento nei progetti di umanizzazione dell’Azienda Sanitaria mette in campo;
- la collaborazione con le associazioni di volontariato in essi presenti.
Accompagnare gli uomini nel momento della sofferenza, che talvolta precede la morte, è tra i compiti più difficile affidati ai sacerdoti. Questa esperienza in tutto il mondo come a Monreale si è resa ancora più difficile da quando è scoppiata l’epidemia da Coranavirus. Abbiamo chiesto di raccontare la loro esperienza a don Carmelo Colletti, Cappellano dell’Ospedale “dei Bianchi” di Corleone, don Vito Bongiorno, cappellano dell’ospedale Civico di Partinico don Gioacchino Capizzi, cappellano dell’Ospedale “G.F. Ingrassia” di Palermo.
Il racconto è avviato da don Carmelo Colletti. “Sono stato nominato cappellano dell’ospedale di Corleone il 23 settembre dell’anno scorso, anche a seguito di mia richiesta perché sono stato in precedenza un infermiere e quindi mi sento particolarmente sensibile alla esperienza della malattia e della sofferenza. Ho iniziato il mio servizio in piena pandemia e quindi proprio a causa del Covid all’inizio non son potuto entrare nei reparti ed ho potuto solo celebrare solo la Messa. Fatto il vaccino da quest’anno ho iniziato a intrattenere rapporti con i malati in corsia. L’Ospedale consta di sei reparti per un totale di oltre 50 posti letto: un piccolo ospedale, quindi, privo anche di cappella. Di conseguenza dedico tutto il tempo disponibile ad incontrare i degenti e quando possibile anche il personale sanitario. Sono anche parroco di Santo Stefano e San Giuseppe a Campofiorito; quindi vado a Corleone la domenica mattina per celebrare la Messa, ma non con gli ammalati, per i motivi che ho detto. Torno poi il pomeriggio per distribuire la Comunione a quanti lo desiderano. Di recente la Direzione sanitaria mi ha concesso l’uso di una stanza che dovremo adibire a cappella. Purtroppo non posso contare sui volontari, viste le difficoltà del momento e quindi mi dedico soprattutto al rapporto con i malati e per quanto possibile anche con i loro familiari”.
Don Vito Bongiorno, è il cappellano dell’ospedale diPartinicoche è stato trasformato in “ospedale Covid-19”, e proprio per questo la sua esperienza è stata ed è del tutto particolare. “Sono cappellano a Partinico da più di tre anni, in un contesto di normalità solo per il primo anno. Infatti col Covid tutto si è fatto più complesso e difficile. L’esperienza della pandemia mi ha costretto a reimpostare la pastorale sanitaria per molti motivi: ho dovuto infatti rinunciare alla visita nei reparti, come facevo all’inizio, alla Messa con degenti e parenti, ed anche alla amministrazione dei sacramenti. Adesso ho avuto l’autorizzazione a tornare tra i malati e poter toccare con mano la sofferenza che infligge questo virus, con l’aggravante che il malato non può contare sull’assistenza dei parenti. È ripresa così la possibilità di distribuire l’Eucarestia e amministrare la confessione, ma spesso devo rendermi disponibile per poter fare una video chiamata ai familiari o portare qualche genere di prima necessità che loro mi consegnano. La prima linea del mio impegno è costituita dalla terapia intensiva: spesso devo limitarmi a stare sull’ingresso e a pregare magari in compagnia di qualche operatore sanitario. Definisco la mia presenza prevalentemente consolatrice, perché mi accorgo ogni giorno che la solitudine in questi malati è particolarmente faticosa da sopportare. A causa dei presidi sanitari mi scambiano spesso per un medico o un infermiere, ma quando si accorgono che sono un sacerdote desiderano parlarmi, magari solo per raccontare della loro sofferenza o delle loro storie e tutto ciò aiuta molto queste persone per le quali le giornate trascorrono tutte uguali, solo in attesa e nella speranza di qualche miglioramento. Oggi la situazione tende a migliorare, anche noi ne cogliamo gli elementi più concreti. La rianimazione è quasi vuota e i malati di Covid diminuiscono di giorno in giorno. Per questo speriamo quanto prima che l’ospedale torni ad offrire i suoi servizi più normali e tradizionali. Di questa esperienza più recente evidenzio il rapporto di amicizia sempre più profondo con tutto il personale perché ci siamo aiutati in tanti modi e con loro dovrò riprendere ad affrontare quella che ho chiamato normalità”.
Conclude questo primo giro don Gioacchino Capizzi, Cappellano dell’Ospedale “G.F. Ingrassia” di Palermo. “Durante gli anni della mia formazione sacerdotale a Roma ho collaborato nella pastorale universitaria e sanitaria dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “A. Gemelli”, al contempo, ho approfondito gli studi della morale con un master in bioetica ed uno in pastorale e cura della salute. Questa esperienza mi ha aiutato a ricercare nell’ammalato il volto di Cristo. Sono giunto in ospedale dopo il trasferimento a Roma del mio predecessore; ho dovuto cominciare “da solo e da zero” dovendo fare a meno dei volontari e dei collaboratori a causa della pandemia. Anch’io all’inizio, grazie al tampone, ho assicurato la mia presenza in cappella e nei reparti. La cappella è sempre aperta e si trova in un luogo di passaggio, quindi è possibile incontrare tante persone. Ho provveduto a mettere ben in evidenza il lezionario con le letture del giorno così da offrire a tutti uno spunto di meditazione attraverso la parola di Dio. Ogni giovedì mattina celebro la Messa cui segue fino a mezzogiorno l’adorazione eucaristica. Ormai tutti sanno che il giovedì mattina sono in quel luogo e sono molti quelli che vengono a trovarmi, spesso anche per confessarsi. La domenica celebro un’altra Messa. In passato i volontari dell’Avuls accompagnavano in cappella i degenti che potevano muoversi; oggi non è ancora possibile. Tramite WhatsApp ho creato una rete attraverso cui mando un commento al Vangelo e le “pillole d’amore” tratte dalla Lettera Amoris Laetitia. Raggiungo così tutto il personale sanitario, gli infermieri e operatori sanitari. Un aiuto molto gradito ai malati è poter fare delle video chiamate ai parenti e spesso aspettano me per poter parlare con loro. Ho strutturato anche percorsi di catechesi in preparazione alla cresima e al matrimonio al personale che me lo richiedeva e talvolta anche agli informatori scientifici. Un momento molto delicato è quando a seguito della morte è possibile donare gli organi del malato. Il cappellano è chiamato ad accompagnare il paziente ed i familiari, anche nei momenti più delicati quali la morte, dall’equipe di rianimazione, insieme alla psicologa, sono stato chiamato a collabborarli nel comprendere l’importanza della donazione degli organi. All’Ingrassia è integrato il presidio di Villa delle Ginestre un centro per i pazienti neurolesi. Lì si vive una condizione particolare perché i degenti vi rimangono per lunghi periodi. Per questo la presenza del cappellano è un segno di continuità. Poiché sto in ospedale tutte le mattina, parto sempre da un approccio amicale e molto attento per comprendere i bisogni di chi mi sta dinnanzi. Dedico molto spazio alla narrativa, cioè all’ascolto delle storie dei malati, soprattutto se anziani. Per generare un rapporto è necessario che chi mi sta dinnanzi mi apra il suo cuore. In quelle circostanze ricordo a me stesso che sono l’unica persona con cui quelle persone possono parlare e a loro va data la massima attenzione. Il presidio dell’Ingrassia-Villa delle Ginestre è posto in una zona strategica questo fa sì che al suo interno troviamo degenti che provengono da altri paesi e non soltanto dal comprensorio di riferimento.” Dopo questo primo giro chiediamo del rapporto con il territorio su cui insiste l’ospedale e in particolare della parrocchia.
Esordisce don Vito: “Per me è molto utile perché la parrocchia è nello stesso comune e ad essa e ai parrocchiani posso chiedere aiuto e sostegno. Prima della pandemia avevo iniziato anche a coinvolgerne alcuni. Poi tutto si è interrotto. Ma proprio durante la prima fase della pandemia mi hanno aiutato a venire incontro a tante piccole esigenze dei malati cui da solo non avrei potuto far fronte. Ma l’aiuto mi viene sul piano spirituale perché l’esperienza in parrocchia e il rapporto con la gente mi aiutano a capire meglio come rapportarmi con degenti e parenti. Attendiamo tutti con ansia la possibilità di tornare a rapporti più diretti perché l’ospedale non è avulso dal territorio, soprattutto se posto in un piccolo comune come Partinico, e con esso deve saper intrattenere rapporti. Inoltre ho trovato molto sostegno nella diocesi e nel Vescovo che più volte è venuto a trovarmi e mi ha sostenuto anche concretamente nel rapporto con tutti”.
“Anch’io – aggiunge don Carmelo – vivo in un piccolo Comune e vedo che l’ospedale è parte integrante della vita sociale degli abitanti e di quelli del circondario. Occorre aprire di più l’ospedale al contesto in cui si trova perché la malattia e la sofferenza sono esperienze fondamentali e normali per tutti, e non solo per quelli che vi sono ricoverati”.
Chiediamo adesso di descriversi l’esprimere del rapporto tra malato e malattia, tra sofferenza e vita.
“Quando qualcuno mi fa la domanda – riprende don Vito – sul perché della malattia proprio a lui, io già tremo, anche se devo dire che molte volte il malato in fase terminale evita di porla perché teme risposte che non sostengano più le speranze di guarigione. Quando la malattia non è in fase terminale l’argomento viene fuori, seppur non in modo diretto, e spesso è occasione per iniziare una conversazione che vada oltre l’ovvio. Ho trovato molto conforto e ne ho parlato con molti in un libro di Enzo Bianchi in cui si parla della malattia come del buio, di un buio in cui Dio è presente, benché nascosto. In questo nascondimento di Dio tutti noi possiamo intraprendere un viaggio e avere la speranza tutti insieme di incontrare il Risorto lungo questo percorso seppur così difficile”.
Don Carmelo aggiunge: “Anche a me in questo periodo di Covid è capitato di incontrare qualcuno che si pone la domanda sul perché della sofferenza. Ho risposto che non sono in grado di dare una risposta esauriente, tuttavia invito tutti a verificare che non si è soli, e che la compagnia del Signore si esprime anche attraverso la mia persona o quella dei parenti o dei medici. Non tutti lo comprendono. Ma comprendo benissimo la loro rabbia soprattutto quando intere famiglie sono colpite anche nelle persone più giovani. Ma ricordo anche che Gesù stesso sulla croce chiese che gli fosse evitato il supplizio e che anche Lui si accorse che in quel momento non era stato abbandonato, a tal punto che un ladrone e il centurione se ne resero conto e insieme a Lui entrarono quel giorno in Paradiso”
Don Vito continua: “In quelle situazioni anche noi dobbiamo saper fare l’esperienza di Dio Risorto e solo così possiamo comunicarla al malato. Io prima di lasciare l’ospedale ogni giorno passo dalla cappella e dico a Dio che ho fatto quello che ho potuto, forse è poco, ma so che Lui puoi fare molto di più”
Don Gioacchino precisa ancora: “Per rispondere a questa domanda sempre ricorrente, ho trovato pregnante la lettura del libro “Dio nel dolore” di Armin Kreiner Nel dialogo con la sofferenza umana è importante riuscire a trasformare le ferite in feritoie, per permettere alla luce della grazia di Dio di attraversarle, sanarle e rendere capaci di illuminare alla luce della propria sofferenza la vita di chi abbiamo accanto. Il letto del dolore diventa la cattedra del magistero sulla sofferenza. Non dobbiamo ritenere che sia il Signore a mandare la sofferenza. Nel rapporto umano con i malati cerco di far emergere la luce che c’è nella loro esistenza anche in un momento di apparente buio e come, ci ricorda San Paolo, le prove sono commisurate alla nostra capacità di sopportazione. Noi siamo in ospedale per far vedere che Dio c’è, anche in quel luogo, come in tutti i luoghi sofferenza e che il Signore è accanto a te”
Don Gioacchino chiede di aggiungere un’altra riflessione. “Non dimentichiamo che il tentativo della società è di eliminare, o almeno di esorcizzare la sofferenza e con essa la morte. Il Covid ce l’ha sbattuta con violenza in faccia. Credo, che sia importante sul piano educativo-spirituale aiutare a cogliere in Cristo e nel suo mistero pasquale la risoluzione del dolore nell’amore, della morte in risurrezione: questo dinamismo salvifico, che dal Cristo come singola persona, passa a operare nel credente, costituisce la risposta ultima la problema del male, entrato nel mondo come minaccia e come depotenziamento della sua natura: il peccato viene redento, la fragilità affidata alla forza della grazia, il dolore impreziosito dalla partecipazione all’amore redentivo di Cristo, la morte viene sconfitta dalla promessa della risurrezione.
Sappiamo come il pensiero del dolore, della sofferenza e della morte, provocano, in un clima di secolarismo e di edonismo, spesso il rifiuto di Dio e talora il rifiuto della vita terrena o il suo smarrimento in forme di disperazione o di autodistruzione (droga, alcolismo, abuso della sessualità).
L’annuncio Kerigmatico del Cristo morto e risorto per noi, fonte di vita nuova e sorgente d’amore, può dare speranza ai nostri tempi, soprattutto nei luoghi ospedalieri.
Penso che il risultato delle GMG proposte da Giovanni Paolo II, accompagnate nel mondo dalla Croce, è stato un momento di rinnovamento culturale e spirituale. Perché si proclama che la vita raggiunge il suo centro, il suo senso e la sua pianezza quando è donata.
Soltanto nella prospettiva del mistero pasquale di Cristo considerato come la forza che trasfigura ed avvolge il mistero del dolore umano e della morte saremo capaci di “volgere al bene tutto quello che ci capita, anche le cose brutte”, con la convinzione profonda che la vita è un dono offertoci ed è prezioso solo se viene donato a sua volta, altrimenti è un peso per sé e talvolta anche per gli altri”.