di Francesco Inguanti
Più di due mesi di guerra continuano a porci domande molto drammatiche. Abbiamo provato a raccoglierne alcune e ad offrire delle possibili risposte.
La prima è quella racchiusa nella frase: “Dov’è Dio nella guerra”?
In un recente libro Santi Grasso, dal significativo titolo: “Ma Dio interviene nella storia?”, ci offre una risposta ripercorrendo alcuni avvenimenti particolarmente significativi del cristianesimo, a partire dal racconto della creazione, passando per la liberazione del popolo ebreo dall’Egitto, e poi viva via fino alla nascita di Cristo, ai miracoli narrati nel vangelo, per giungere alle tragiche vicende della Sua morte e resurrezione. Nell’ultimo capitolo dal titolo “Il cambio del paradigma”, spiega che l’intervento di Dio, dopo la morte e resurrezione di Suo figlio “non poteva essere concepito come un’azione concreta che mutava fatti e avvenimenti, ma come dono di una vita sovrabbondante corroborato dall’azione dello Spirito”, perché “Dio raggiunge ogni essere umano non attraverso avvenimenti altisonanti e potenti, ma con la forza della vita trasmessa al credente attraverso l’azione dello Spirito”. In altri termini potremmo affermare che Egli è intervenuto più volte per guidare e spiegare l’operato del popolo di Israele, anche nelle tante guerre che ha fatto. Ma poi ha mandato Suo figlio in terra che si è confrontato con questo tema più volte ed ha spiegato quale è la battaglia che Lui ci chiama a sostenere e per quale obiettivo. Utile a tal proposito quanto accaduto nell’Orto degli Ulivi e subito dopo. Nelle settimane e nei giorni precedenti si era combattuta una guerra: quella dei Sacerdoti che volevano la morte di Gesù e quella di Pilato, che voleva evitarla non comprendendone le ragioni. Una guerra senza esclusioni di colpi, una guerra combattuta secondo la sua logica, con la potenza e la forza. Neanche Pietro ne capì il senso il quale l’affrontò con la sua logica, quella di un uomo del suo tempo. Ed infatti mise mano alla spada per contrapporre violenza a violenza. E Gesù fu costretto a fermarlo, spiegando che quella logica non era quella del Figlio di Dio.
La seconda è ancora più terribile: “Perché esiste la guerra”?
Perché gli uomini si fanno le guerre, da sempre, per risolvere i loro problemi? Ma, che cos’è la guerra? Quella di questi giorni, ma anche quella di cui tutti partecipiamo ogni giorno nei rapporti tra noi? Tra padre e madre, tra fratelli, tra parenti e tra amici, tra sacerdoti, tra vescovi, tra parrocchie, dentro la stessa Chiesa universale? Può essere di aiuto porsi un’altra domanda: Chi ha scatenato la prima guerra nella storia degli uomini e perché? Sono stati Adamo ed Eva che hanno dichiarato guerra a Dio, perché hanno fatto un cattivo uso della ragione e della libertà, vale a dire del desiderio di godere della vita piena e infinitamente soddisfacente. Si sono lasciati guidare dalla presunzione di diventare come Dio e non hanno fatto un uso corretto della ragione, con cui potevano comprendere che mai e poi mai avrebbero potuto essere come Dio. Chi è stato il primo uomo vittima della guerra? Abele, ucciso da Caino, che non era suo nemico, bensì suo fratello. È accaduto per lo stesso motivo: un cattivo uso della libertà, a causa della ragione annebbiata e accecata dalla gelosia e dalla invidia perché le opere del fratello erano apprezzate e le sue, fatte male, non venivano apprezzate allo stesso modo. E da quel momento ogni guerra è stata accompagnata dalla morte. È quanto mai significativo quanto detto dal papa a tal proposito nel messaggio Urbi et orbi del giorno di Pasqua: “E invece stiamo dimostrando che in noi non c’è ancora lo spirito di Gesù, c’è ancora lo spirito di Caino, che guarda Abele non come un fratello, ma come un rivale, e pensa a come eliminarlo”
Terza domanda: “Perché Dio non ha impedito fin dall’inizio che esistesse la guerra”?
Dio avrebbe potuto farlo, ma ci avrebbe privato della cosa che gli sta più a cuore: la nostra libertà e la stima per la nostra intelligenza e ragione. La guerra esiste non perché la vuole Dio, ma Dio la permette, sperando che attraverso il dolore sofferto gli uomini possano ritornare alla vera conoscenza e alla saggezza, umilmente domandando Misericordia e perdono e la Grazia di un sempre nuovo inizio, per progredire verso la piena maturità, personale e comune. Dobbiamo serenamente riconoscere che il mistero della vita è più grande di noi e dobbiamo saper accettare che non siamo in grado di capire tutto. Il più grande rischio che Dio ha voluto correre non è stato al momento della creazione di Adamo, ma quando lo ha reso libero, ben sapendo in quali guai si sarebbe cacciato in seguito. Alla libertà ha aggiunto la ragione, immettendo in ogni uomo una dialettica interna con cui affrontare tutti i problemi della sua vita. Anche la guerra, anche questa guerra, si svolge su questa dialettica.
La quarta domanda riguarda la deriva moralista verso cui ci hanno trascinato: “Da che parte sta la verità e la giustizia”?
Sono innanzitutto i mass media e chi li guida a indurre questa domanda, profondamente umana e al tempo stesso astratta. Fin dall’inizio ci hanno invitato a prendere posizione per una parte o per l’altra. Ora, per le cose drammatiche che sono accadute, ci invitano a stare solo da una parte. Ma noi cristiani abbiamo una parte da cui stare? È utilissimo a riguardo il notissimo dialogo tra Pilato e Gesù. Anche Pilato vuole sapere da che parte sta Gesù, ma lui ribatte che il suo Regno non è di questo mondo, anche se potrebbe far scendere in campo legioni di angeli in grado di sconfiggere anche i missili ipersonici. Il giornalista Gian Micalessin ha giustamente scritto che in guerra non basta stare dalla parte giusta per comportarsi da “buoni”. Infatti la guerra è sempre abietta, crudele e feroce.
La quinta domanda attiene al nostro rapporto con il potere e lo Stato.
Nel famosissimo passo del Vangelo di Matteo si legge: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio». Cesare in questo caso non è solo lo Stato che chiede le tasse, ma anche quello che dichiara guerra ad un altro Stato. Noi possiamo e dobbiamo esprimere dissenso, contestare, protestare, ma la decisione non dipende da ciascuno di noi. Abbiamo dei doveri anche nei confronti di queste decisioni di Cesare. Ma qualunque decisione non deve impedirci di dare a Dio ciò che è suo. La chiamata alle armi può far parte dei diritti di Cesare. Noi ne parliamo a distanza perché nessuno ha invaso il nostro territorio e nessuno ci ha costretto ad occupare quello degli altri. Ma nessuna modalità di guerra deve impedirci di testimoniare la nostra fede e appartenenza a Cristo. Nel lager il primo impegno per tutti era non morire, ma Massimiliano Kolbe decise di dare spontaneamente la vita sua per salvare quella di altri. Non possiamo fuggire le circostanze e in esse dobbiamo combattere la buona battaglia. Come è stato nella pandemia. Ciascuno l’ha combattuta dove si trovava e come ha saputo. Guai a tentare di evitarla. Anche la guerra: ciascuno deve affrontarla dove si trova. C’è chi ha imbracciato il fucile, c’è chi si prodiga da mesi per assistere i profughi, chi raccoglie beni e danaro. Ciascuno faccia la sua parte, ma senza cadere nel tranello di costringerci ad arruolarci da una parte o dall’altra.
La sesta domanda riguarda il Papa e ciò che avrebbe dovuto fare.
Molti confondono le sue parole con il pacifismo, cioè con la non belligeranza. Ma non è così. Tralasciamo per un attimo i suoi discorsi che sono stati raccolti in un recentissimo libro: “Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace”. Pensiamo ai gesti che ha compiuto. Il più importante è stato certamente, l’Atto di affidamento della Russia e dell’Ucraina alla Madonna del 25 marzo scorso. L’aspetto decisivo è sta nel fatto che pastori e i fedeli, hanno riconosciuto, almeno implicitamente, la sovrana potestà di Dio non solo sui singoli, ma anche sulle nazioni e sul mondo intero. Molti hanno ritenuto che ciò non fosse sufficiente. Ma non è così. Viviamo da tempo in un mondo in cui non c’è più posto per Dio, che continua a reclamare l’autonomia delle realtà terrene, relegando Dio alla “spiritualità” dell’uomo, o meglio dell’individuo, perché pare che Dio non c’entri più nulla con la vita della società e delle nazioni. La consacrazione alla Madonna di due precise nazioni ha rimesso finalmente Dio al centro della vita del mondo e della Chiesa, orientando le speranze degli uomini là dove devono essere indirizzate, e riportando gli uomini ad implorare il soccorso dall’alto. Dobbiamo fare attenzione a non considerare la Consacrazione alla Madonna come un atto magico, con cui otteniamo quello che ci fa comodo. Sarebbe sfidare Dio, chiedere pace e prosperità, senza metterci nulla di noi. La penitenza è assolutamente necessaria, come anche la riparazione.
Più di recente un altro fatto ha destato grande scalpore. Durante la Via Crucis guidata dal Papa due donne, una ucraina e una russa, insieme hanno invocato la pace ai piedi della croce. Le proteste da parte ucraina che esprimono «questa idea inopportuna e ambigua che non tiene conto del contesto di aggressione militare russa contro l’Ucraina» dice in modo drammatico quanto sia difficile dare un giudizio ponderato. Non basta, come tutti si sono precipitati ad affermare che il Papa ha il diritto di far la Via Crucis come ritiene opportuno. Ciò che veramente è messa in discussione è la possibilità se la croce può unire non solo quelle due donne, non solo simbolicamente due popoli, ma se la croce è l’ultima parola sulla storia di due popoli in guerra. Se cioè la forza della croce è l’unica in grado di pacificare due popoli belligeranti, che sotto la Croce può esserci riconciliazione per tutti, anche per gli uomini in guerra, perché Colui che è appeso sulla croce è l’unico che ha vinto la morte e con essa anche la guerra.
La settima domanda ha per tema la speranza.
Nei momenti di grande difficoltà personale o collettiva è ciò che si invoca più immediatamente. Spesso, anche ingenuamente, si pensa che sia sufficiente tornare indietro “al come si stava meglio prima” dei disastri che viviamo. Ma sperare nel passato non è possibile Si può sperare solo nell’avvenire Certo il passato è più rassicurante, perché lo si conosce già, perché anche quando è tragico non porta con sé l’angoscia dell’incertezza. Ma proprio per questo non produce nessuna sorpresa Ma su cosa può fondarsi una speranza che non delude, come quella necessaria per uscire fuori da questa come da tante altre guerre? Solo su una promessa che non delude C’è un personaggio della Bibbia, più volte invocato in gesti tristi giorni, che può esserci di esempio: il profeta Geremia. A lui il Signore fece solo una promessa Non quella che si attendeva per liberare il popolo di Israele dalla schiavitù, ma quella racchiusa nella frase: “Io sarò con te”. Geremia voleva rifiutare la missione affidatagli da Dio, e ne aveva certo dei buoni motivi. Ma quella promessa valse più di ogni argomento. I tempi odierni sono molto simili ed anche a noi è chiesto di fidarci dell’unico che può dirci: “Io sarò con te”. In un recente libro Andrien Candiard, dall’eloquente titolo: “La speranza non è ottimismo Note di fiducia per cristiani disorientati” conclude con questa frase: “… il mondo si aspetta da noi che viviamo nella speranza, cioè che viviamo per l’eternità, che noi viviamo per quello che conta davvero e che non passerà mai”. A libro concluso l’autore, che è parroco in Egitto, apprende che un ostaggio croato di trentun anni è stato sequestrato e ucciso da terroristi. La drammaticità dell’evento fa sì che la domanda sulla speranza lo interpelli personalmente e quindi aggiunge in ultima pagina “Ma conservare la speranza è, per me, sapere che in realtà ho qualcosa di utile da fare proteggere la fiamma che Gesù è venuto ad accendere in me, continuare ad amare, ad amare i miei fratelli, i miei amici, le vittime e i loro aguzzini, continuare a trovare in tutto un’occasione di amare”. E poi dopo un ennesimo riferimento ai tragici fatti di cui è testimone in quel paese conclude: “Ma se troviamo la forza di attraversare senza odio, se davvero di essi troviamo il modo di amare nonostante tutto, allora non saranno stati totalmente inutili”.
Concludiamo citando nuovamente Santi Grasso, che ha detto in una intervista: “La vera fede è non legarsi a Dio per essere tutelati. Il Vangelo sconvolge un po’ questa idea: quando Gesù manda in missione i discepoli dice loro che vivranno momenti difficili e duri. La religione non è una sorta di salvacondotto, ma anzi diventa esporsi al rischio, al pericolo, alle varie situazioni drammatiche della vita. Abbiamo un po’ perso questo senso del Vangelo, prendendo la religione più che altro come una sorta di tutela per la nostra incolumità”.