di Francesco Inguanti
Lunedì pomeriggio. Il caldo e l’afa non danno tregua nemmeno a Monreale. Nel primo giorno di vacanza degli uffici della curia il cortile è deserto: poche macchine, nessun visitatore, porte chiuse. Come farò ad entrare? Busso e il nuovo arcivescovo mons. Gualtiero Isacchi, viene personalmente ad aprirmi. Comprendo subito che in casa saremo da soli per l’intervista e salgo le scale insieme a lui. La temperatura elevata ci consiglia di accomodarci nella veranda, con l’incantevole panorama della Conca d’oro alle spalle, che lascia ancora a bocca aperta il nuovo inquilino delle stanze del primo piano. È trascorsa una settimana dal giorno del suo insediamento. Andati via gli ospiti e quanti operano negli uffici il silenzio regna sovrano. Solo i turisti che osano sfidare i 38 gradi si aggirano sui tetti della Cattedrale. Mi ha chiesto non un’intervista ma una chiacchierata. E così comincio subito.
Mons. Isacchi, ma è vero che se non avesse fatto il sacerdote avrebbe fatto il calciatore?
Probabilmente, ma non lo saprò mai.
Ma come andarono le cose? Che cosa determinò la decisione?
Ho sempre amato giocare al calcio, fin da bambino. In una fase della mia vita abitavo a Frattocchie, una frazione del comune di Marino a 20 km da Roma, situato sull’Appia Antica. Lì abitava anche il giocatore della Roma Giuseppe Giannini, da tutti chiamato il principe. Io giocavo con i suoi fratelli nel campetto della parrocchia ed una volta durante una partitella arrivò proprio lui. Io avevo 11 anni, andavo in seconda media. Con lui c’erano due persone che non conoscevo con cravatta e giacca sulla quale spiccava lo stemma della Roma. Mi si avvicinarono e mi chiesero se giocassi in qualche squadra di calcio. Ovviamente risposi di no e mi chiesero se quella cosa che avevo fatto qualche minuto prima faceva parte del mio repertorio o era una giocata del tutto occasionale. Era uno stop volante che per me era abituale e che invece evidentemente li colpì. Ed allora mi chiesero se ero disposto a giocare nelle giovanili della Roma. Non mi sembrò vero e ovviamente dissi che dovevano parlarne con mio padre. Immediatamente mi caricarono in macchina e andammo a casa per parlare con lui. Mio padre, di sana cultura contadina, sapeva stare con i piedi per terra e rispose serenamente che avrebbe acconsentito se fossi stato promosso in terza media.
E come andarono allora le cose?
Il Signore mi ha preso per i capelli e alla fine dell’estate entrai in seminario. Devo ammettere che ero molto bravo e in seguito ho continuato a giocare sia da seminarista che da sacerdote.
E cosa ricorda di quegli anni?
Un aspetto particolare, ma significativo: appena in campo mi presentavo come sacerdote e chiedevo di non bestemmiare.
E funzionava?
Non sempre; ad ogni bestemmia io rispondevo con ora pro nobis e questo generava simpatia e amicizia. Col senno di poi dico che è stata una carriera stroncata da una vocazione.
Ma ha anche altri interessi?
Certamente la fotografia ed anche il giornalismo, con cui mi sono cimentato sempre in parrocchia. Partimmo con una testata parrocchiale che poi divenne addirittura diocesana e poi questo mi portò a diventare Direttore delle Comunicazioni sociali. Ma il primo grande amore è e rimane la montagna.
Ma come si coltiva questa passione abitando per tanti anni ad Albano?
Imparando a conoscere ed apprezzare l’Appennino, a partire dal Gran Sasso. Non erano le Alpi dove sono nato, ma andava bene lo stesso.
E ora a Monreale dove non ci sono montagne che farà?
Non ho più il fisico per le cordate sulle Dolomiti, mi accontenterò di buone passeggiate e poi forse inizierò ad apprezzare anche il mare.
Torniamo alla sua vita. Lei ha poco più di 50 anni, di cui circa 15 trascorsi al nord, in Lombardia. I rimanenti li ha vissuti al centro, nel Lazio. Adesso si trova al sud, in Sicilia. Come vede queste tre Italie? Cosa si porta venendo al sud dell’Italia del nord e del centro?
Dell’Italia del nord mi porto l’imprinting iniziale che rimane in ciascuno di noi che si traduce in alcune caratteristiche: la puntualità, la precisone, il darsi da fare che alcuni mi rimproverano come difetti, e poi la fedeltà.
Cioè?
Al nord non è così immediata l’apertura e l’amicizia, ma quando c’è l’amicizia non c’è nulla che l’interrompa. Mentre invece vivendo in centro Italia ho acquisito una maggiore leggerezza, un invito a non prendersi troppo sul serio, e la sana capacità di apertura, di immediatezza nelle relazioni che è molto utile nel rapporto umano.
E in questa prima settimana al sud cosa ha scoperto?
Una grande capacità di abbraccio, un desiderio stringente di affetto e amicizia,
Da cosa l’ha capito?
Dall’eccessivo entusiasmo che ho visto attorno alla mia persona. Forse troppo, che spero di non deludere. L’incontro con la gente comune che non conoscevo mi ha molto colpito.
E in particolare c’è un episodio da raccontare?
Qualche giorno fa sono andato a prendere un caffè in un bar della piazza. È stata una specie di festa. Sono stato attorniato da tanti, monrealesi e turisti, tutti meravigliati di vedere un vescovo così giovane che ama stare con la gente comune. In molti non avevano mai visto un vescovo così giovane che prende il caffè al bar come tutti. La mia giovane età e il contesto relativamente piccolo della città di Monreale certo aiutano e aiuteranno questa “intimità” di rapporto.
E a queste tre Italie corrispondono a tre Chiese diverse?
Probabilmente a tre espressioni diverse della stessa Chiesa. La Chiesa si esprime nella comunità civile, nella comunità umana, per questo penso si possa dire che la Chiesa si esprime in tre modi diversi, più si scende e più mi pare di cogliere una giovinezza, una freschezza. Mentre al nord, soprattutto nella chiesa Ambrosiana, c’è una grande tradizione, ci sono delle abitudini consolidate e la Chiesa deve confrontarsi con una Italia altamente industrializzata. Al centro nelle zone più antiche c’è tradizione, poco movimento, mentre nelle zone in cui c’è una grande presenza di immigrati, italiani di vecchia data e adesso immigrati, penso alle zone della bonifica pontina ad esempio, c’è una maggiore partecipazione. È gente sradicata dalle proprie tradizioni che cerca punti di consistenza che la Chiesa può offrire. Al nord la Chiesa è forse un pochino più ingessata, al centro è un pochino più aperta. Va poi precisato che nel Lazio la Chiesa paga lo scotto della presenza di Roma, capitale d’Italia e della cristianità. In Sicilia non lo so ancora, lo scoprirò.
Rimane il fatto che c’è una crisi anche nella chiesa italiana, che molti identificano col fatto che le chiese si svuotano di settimana in settimana. Che ne pensa?
Fermiamoci un attimo. Dobbiamo preoccuparci del fatto che le chiese si svuotano, ma non dobbiamo affannarci con la preoccupazione di riempirle. Lo svuotamento delle chiese è un segnale della nostra poca presenza e da questo dobbiamo partire, non da preoccupazioni organizzative.
Lei è entrato in seminario giovanissimo, credo a dodici anni. Oggi non accade più. Prevalgono le c. d. vocazioni adulte. Innanzitutto: cosa le è a accaduto in quella circostanza?
Il punto di partenza è stato il fascino di una persona, il sacerdote dell’oratorio di Seregno che ho sempre frequentato fin da piccolo. E insieme a lui religiose e giovani, sempre sereni, gioiosi, che mi affascinavano. E loro continuavano a ripeterci che il motivo di questa gioia era Gesù. La mia idea di sacerdozio è scaturita dal fascino della vita in oratorio. Ovviamente poi è cambiata molto in conseguenza delle esperienze fatte e dei luoghi in cui ho abitato. E da lì son partito per giungere fino a qui.
Ma certamente non sarà stato un percorso lineare. I suoi compagni di classe e di giochi le proponevano altre alternative. Come rispondeva?
Innanzitutto i miei amici non erano molto “di chiesa” e quindi sempre mi chiedevano: “ma chi te lo ha fatto fare”? Mi ha aiutato molto il clima del seminario, sia quello iniziato a Milano che quello proseguito ad Albano Laziale. Non c’era irreggimentazione; c’era una attenzione alle nostre persone e all’età che avevamo. L’intelligenza dei superiori ci permetteva di vivere pienamente la nostra condizione adolescenziale, compreso alcune marachelle, che ci venivano perdonate. E poi i compagni che ho avuto man mano, nella parrocchia di Pavona ove ho vissuto a lungo in compagnia di un prete giovane, don Luigi, che mi affascinava per come sapeva stare con i giovani. In parrocchia ero un giovane tra i giovani, non un seminarista e questo mi aiutava molto nei rapporti con i coetanei.
In questo percorso ha fatto anche il Rettore del Seminario. Che esperienza ne ha tratto?
Ho fatto il Rettore dal 2005 al 2013. Il Vescovo me lo chiese non tanto per curare la formazione dei seminaristi, quanto per ridare vita al seminario e renderlo un centro pastorale. In altri termini: preoccupandomi più di coloro che stavano fuori che non di quelli che già erano dentro.
Come vede a tal proposito la vicenda dei seminari in generale?
La questione è certamente delicata e su di essa si è scritto e detto molto. Tanti sono anche i documenti della Chiesa. Ritengo che vada ripensato il seminario a partire anche dal ministero che questi ragazzi devono esercitare in questo tempo. Troppo spesso invece il neo sacerdote si trova catapultato dopo tanti anni di seminario in un mondo che non conosce, a partire da come si vive nelle parrocchie. Questa è probabilmente la prima attenzione.
E la seconda?
Tenere presente che chi oggi è in seminario è innanzitutto figlio di questo tempo. E quindi bisogna avere una attenzione sempre maggiore alle capacità relazionali. In sintesi: tener presente per che cosa si sta in seminario e sapere che cosa si dovrà fare appena usciti. E per finire occorre aiutare i giovani seminaristi a saper guardare e giudicare aspetti fondamentali della vita: la famiglia, l’affettività, la donna, la politica, la salute, la giustizia, il creato, ecc. Se non si fa con adeguati percorsi formativi in quella fase della loro vita, finiranno col trarre indicazioni e giudizi da internet. E in questo bisogna farsi aiutare dai laici, non solo dai preti, perché vedono cose che noi sacerdoti non vediamo.
Chi sono stati i maestri nella sua formazione, non solo quelli che ha incontrato personalmente, ma anche quelli conosciuti attraverso la lettura?
Il primo maestro che ho scoperto a 14 anni è stato il Cardinale Carlo Maria Martini che all’epoca era il Cardinale della diocesi di Milano. Venne in seminario a Seveso nel 1983 per predicare gli esercizi spirituali. Ed io ne rimasi folgorato soprattutto per il suo modo di presentare la “parola di Dio”. Poi ho avuto modo di conoscerlo personalmente, soprattutto quando è venuto ad Ariccia alla fine del suo ministero e lo abbiamo coinvolto in una esperienza che avevamo chiamato “Scuola di pace”. Un’esperienza che coinvolgeva tanti giovani in anni, eravamo nel 1995, in cui c’era una grande sensibilità per la pace. Lo abbiamo coinvolto più volte per incontrare questi giovani e si è reso sempre disponibile.
Ed altre figure significative?
Certamente quella di don Lorenzo Milani, attraverso le letture delle sue opere; e poi quelle di altri sacerdoti che ho incontrato e mi hanno sempre appassionato. Poi tanti contemporanei: Giorgio La Pira, don Divo Barsotti, Giuseppe Dossetti. E in genere tante persone incontrate in modo normale o occasionale. Io mi definisco “praticone”, sono un brianzolo, amo la concretezza. Con molte delle persone che sono venute alla mia ordinazione ho vissuto insieme per anni in parrocchia. Questo tipo di compagnia quotidiana aiuta molto nella formazione. La mia grande passione è stata sempre quella di ascoltare, di ascoltare le storie degli altri.
Che vuol dire?
Fin da piccolo ricordo ero affascinato da come mio nonno mi raccontava la guerra, e poi ricordo gli incontri che facevano nelle case dove stavano gli anziani; ho sempre apprezzato tantissimo la fatica di “essere famiglia”. Sono cresciuto contento perché attorniato da gente contenta della vita.
Anche se è a Monreale da solo una settimana ha già conosciuto tante persone. Qual è la sua prima impressione?
Innanzitutto il calore e l’accoglienza che mi sono stati riservati, anche negli incontri più brevi. E poi il caldo. Mi è stato detto che è un’estate eccezionale, ma comunque io non ho vissuto in climi così caldi. Mi dovrò abituare.
Ma dica di come ha trovato la chiesa di Monreale
Parlando della chiesa locale ho notato una certa ingessatura. Per carità è così dappertutto. Il leitmotiv è: si è sempre fatto così. Ma questo non vuol dire che non si possa e debba cambiare. C’è poi un’altra questione: l’abitudine a percepire la persona del vescovo più per la sua carica istituzionale che per la sua missione pastorale. E questo crea una distanza, uno squilibrio, una difficoltà nell’incontro. Ho iniziato già in questi giorni a fare omelie con un linguaggio diretto, con poco greco e poco latino e spero presto con un po’ di siciliano. In questa settimana ho riscontrato un grande desiderio di cambiamento anche nei sacerdoti, ma forse anche delle aspettative troppo alte nei miei confronti. L’impressione che ho dopo appena sette giorni di vita monrealese è quella di esserci sempre stato, di sentirmi a casa.
In che senso parlava di eccesso di attese?
Mi esprimo con un linguaggio calcistico e romano. I tifosi romanisti sono famosi perché pensano di poter vincere lo scudetto già prima di natale. Basti ricordare la parabola di Josè Mourinho dell’anno scorso. Ecco io non ho fretta, voglio fare un percorso di prospettiva e poi a differenza di ogni allenatore di calcio devo lavorare con i giocatori che ho, non posso fare la campagna acquisti ogni anno. Nella nostra squadra i giocatori li sceglie direttamente il Signore, noi dobbiamo scegliere il modulo: se sapremo scegliere bene, sono certo che vinceremo il campionato.
Concludiamo: che effetto le ha fatto essere stato consacrato Vescovo nel duomo di Monreale?
Non so come descriverlo. Quel luogo ha una forza attrattiva indicibile. Mi sono sentito immerso in una storia di santità, perché mi sono sentito avvolto dall’oro dei mosaici. E poi celebrare su quell’altare è qualcosa di grandioso. Mi sembrava di essere in paradiso.