di Francesco Inguanti
Tra le autorità che quest’anno hanno visitato al Meeting di Rimini la mostra sul beato Rosario Livatino, dal titolo “Sub tutela dei”, spicca quella del Presidente del Tribunale di Palermo, Antonio Balsamo, cui abbiamo rivolto alcune domande.
Nel suo recentissimo libro “Mafia: fare memoria per cambiarla” afferma che “Il rapporto della società siciliana con la mafia è cambiato profondamente nel corso dell’ultimo secolo”. Eppure questo percorso è lungi dal concludersi. Cosa manca perché da quello che Paolo Borsellino chiamava “un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti, specialmente le giovani generazioni” scaturiscano risultati chiari e duraturi?
Negli anni cui facciamo riferimento ho notato un grande cambiamento nella società. Ho un ricordo molto forte e per certi versi inquietante della Palermo degli anni ’80 in cui ho vissuto. Era assolutamente normale avere come compagni di scuola delle persone che appartenevano a famiglie mafiose di altissimo livello, coinvolte nella strategia stragista. Però al tempo stesso c’era una alternativa particolarmente coinvolgente per la mia generazione, che era rappresentata da figure come Paolo Borsellino, come Rocco Chinnici, come tante altre persone impegnatissime nel loro ruolo di affermazione della legalità, le quali trovavano sempre il tempo per avere un costante dialogo con i giovani.
Chi ricorda in modo particolare di quegli anni?
Il primo magistrato che ho conosciuto e che per me è rimasto indimenticabile è stato Rocco Chinnici. Avevo 18 anni. Era un momento estremamente difficile per lui, eppure trovava sempre il tempo per discutere con i giovani. Io ero al primo anno di giurisprudenza e le mie idee sul tribunale della libertà me le sono fatte sulla base del suo pensiero. In quegli anni si erano verificate a Palermo tante cose che richiedevano per lui un impegno totalizzante. Rocco Chinnici era consapevole che il cambiamento della mentalità collettiva era tanto importante quanto il cambiamento derivante dalle azioni giudiziarie. Credo sia fondamentale ancora oggi ricostruire il rapporto tra le istituzioni e i giovani esattamente secondo quella logica, che può essere realizzata anche con un forte coinvolgimento della società civile e del mondo religioso.
Però si fa ancora tanta fatica. Perché?
Perché non c’è dubbio che tante affermazioni di principio, tante lezioni importanti sul piano etico, devono diventare un impegno di vita quotidiana. In quegli anni, persone come Rocco Chinnici aiutarono tutti i giovani a capire che c’era uno strettissimo collegamento tra il rifiuto del consumo della droga, che era diffusissimo, e il contrasto alle organizzazioni criminali, che traevano enormi profitti da quel traffico. Era il periodo in cui la Sicilia era il crocevia dei più importanti traffici di droga a livello internazionale e Cosa nostra accumulava immensi patrimoni diventando quindi protagonista del mondo imprenditoriale attraverso l’attività di riciclaggio. Molto significativa è stata a mio avviso la riflessione di Giuseppe Pignatone.
Perché?
Pignatone ha spiegato che c’è uno stretto collegamento tra questa fase di accumulazione illecita di patrimoni di altissimo valore e la fase del terrorismo mafioso. Credo che per produrre risultati chiari e duraturi, la lotta alla mafia deve essere fatta da tutti e non attraverso affermazioni di principio, ma con comportamenti concreti, anche costruendo delle occasioni di dialogo continue tra le istituzioni e le giovani generazioni con un coinvolgimento forte della società civile e del mondo religioso.
A tal proposito lei parla nel suo libro della necessità di una adeguata formazione dei giudici. In che senso?
La formazione dei giudici si fa in tante sedi. Una può essere quella istituzionale della Scuola Superiore della Magistratura, ma c’è quella altrettanto importante che deriva dalla conoscenza profonda della realtà e delle attese della gente, soprattutto di quanti vivono in aree come le periferie di Palermo o di altre grandi città. Dobbiamo prendere atto che queste fasce di popolazione non sempre ricevono la giusta attenzione da parte delle istituzioni dello Stato. Ho un ricordo in tal senso molto bello: l’insediamento del Procuratore generale, la collega Lia Sava, che parlava della priorità dell’impegno verso i poveri. Questo può essere un impegno forte per tutti noi.
Sempre nel suo libro lei si dilunga giustamente sul “diritto alla speranza” secondo cui “gli autori dei reati più gravi conservano la loro umanità fondamentale e hanno la capacità intrinseca di cambiare”. Cosa si deve fare perché il diritto alla speranza sia patrimonio di tutti i condannati e valore condiviso della società?
Credo esistano tante dimensioni del diritto alla speranza. C’è una dimensione individuale, ma anche una collettiva. Si tratta di un autentico percorso di riscatto. Questo è il significato profondo che ha attribuito a questo concetto la persona che l’ha coniato, la collega Ann Powel-Ford, con cui ho avuto la fortuna di lavorare assieme. È una di quelle persone che pone la fede cristiana a fondamento di un grande impegno di giustizia, esattamente come faceva Rosario Livatino. Lei ha visto questo diritto come una grande occasione di riscatto per qualsiasi persona e come un’applicazione profonda di quel messaggio cristiano che ha espresso in maniera molto suggestiva proprio al Meeting il Cardinale Zuppi. Penso che il significato profondo del diritto alla speranza sia la costruzione di un percorso di riscatto che riguarda la speranza di cambiamento di tutta la comunità.
E quali forme e modalità può assumere?
Può realizzarsi con forme nuove di giustizia riparativa ispirate ad un principio che si è fatto strada negli ultimi anni a livello internazionale che è quello della rieducazione attraverso il coinvolgimento della comunità, secondo un duplice senso: deve essere tutta la comunità a farsi carico dell’impegno di rieducazione, ma al tempo stesso l’impegno per la rieducazione deve essere volto a far sì che l’autore di reati, anche particolarmente gravi, sia protagonista di iniziative finalizzate a riparare il danno fatto alle vittime e ad una intera collettività.
E cioè?
Un modo molto significativo è quello di fare tutto il possibile per attuare quel diritto alla verità che spetta alle vittime dei reati, alle loro famiglie, ma anche all’intera comunità. Questo collegamento tra diritto alla speranza e diritto alla verità può essere fatto in tante sedi, per esempio nel lavoro che potrebbero fare le Commissioni parlamentari di inchiesta e che potrebbe andare anche oltre i limiti propri dell’accertamento giudiziario.
Collegato a questo tema c’è quello dell’ergastolo ostativo. Può spiegarlo?
La disciplina dell’ergastolo ostativo, se riformata in termini adeguati, può diventare utilissima. Purtroppo la riforma non è ancora legge. C’era stata una proposta che conteneva diversi elementi positivi e che era stata approvata il 31 marzo 2022 dalla Camera; poi non c’è stato il tempo perché venisse esaminata e approvata dal Senato. Ma si tratta di una questione cruciale, perché siamo completamente fuori strada se pensiamo che il significato del diritto alla speranza sia di far rientrare nella società civile persone che non hanno manifestato nessuna comprensione per le vittime e per il loro dolore. Il significato vero è quello di richiedere a tutte le persone un impegno forte di riscatto che deve essere fatto tenendo in considerazione nel massimo grado le esigenze profonde delle vittime di reato.
Lei ha ricordato che apprese dell’uccisione di Rosario Livatino mentre si preparava per sostenere il concorso in Magistratura. Che sensazione provò di fronte a quell’evento e come ha inciso quel ricordo negli anni successivi?
Appresi della morte di Rosario Livatino mentre studiavo insieme al collega Nino Di Matteo per l’esame orale del Concorso per la Magistratura. La prima percezione fu di un grande dolore, perché ci trovammo di fronte ad una realtà drammatica. Però tutto ciò costituì anche una forte motivazione all’impegno, a raccogliere questa sfida drammatica ma in cui ciascuno pensava di poter essere importante. Era un modo per pensare un po’ come Rosario Livatino che era un uomo che univa umiltà e coraggio. Che aveva una grandissima capacità di ascolto, di comprensione, di amore per gli altri; però al tempo stesso aveva un coraggio da leone. Pensare a quel giudice che quasi nessuno conosceva, e capire che quello che gli era successo sarebbe potuto accadere a ciascuno di noi, significò accettare la stessa sfida con cui lui si era confrontato. Quei fatti terribili agirono come una motivazione ulteriore per impegnarsi nel concorso per la Magistratura. Ciascuno lo vedeva come un modo per dare il meglio di sé e per cercare di dare un contributo al miglioramento della realtà siciliana.
Il contrasto alle mafie a livello internazionale costituisce molto del suo impegno professionale e le sue competenze specifiche in questo settore sono ampiamente riconosciute. Quali sono le difficoltà più difficili da superare in questo percorso?
Credo che oggi il nostro lavoro a livello internazionale conti moltissimo specialmente nello sviluppo delle potenzialità operative della Convenzione ONU che non a caso è stata firmata a Palermo, il luogo dove hanno operato Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Perché molte delle espressioni della criminalità organizzata hanno delle caratteristiche transnazionali e per una buona parte di queste manifestazioni non c’è ancora uno strumento specifico che abbia una estensione adeguata tenuto conto dell’alto numero degli Stati coinvolti.
Può fare un esempio?
Un tipico esempio è quello della criminalità informatica sulla quale è in preparazione una convenzione delle Nazioni Unite. Un altro esempio è quello del terrorismo: non c’è una convenzione universale di portata generale. Un altro ancora è la criminalità che danneggia gravemente quel bene comune a tutta l’umanità che è l’ambiente. Su questi tre fenomeni lo strumento più efficace di contrasto a livello internazionale è la “Convenzione di Palermo”. Nel programma lanciato per la sua attuazione ci sono alcuni aspetti importanti e cruciali per il futuro che possono diventare la base per una armonizzazione normativa che poi possa dare un impulso forte alla cooperazione internazionale.
Quali?
Almeno due. Il tema delle nuove tecniche di indagine su base tecnologica: si tratta di metodi investigativi indispensabili per affrontare le indagini con modalità adeguate ai grandissimi cambiamenti che hanno investito tutto il mondo delle comunicazioni; queste nuove metodologie investigative però hanno bisogno di essere oggetto di una disciplina su basi comuni, di quella che tecnicamente si chiama “armonizzazione normativa”.
E il secondo?
La costruzione di organi investigativi comuni che facciano uso delle moderne tecnologie. Entrambi questi aspetti formano oggetto della “Risoluzione Falcone” adottata nel 2020 dalla Conferenza delle Parti della Convenzione di Palermo. Dalla capacità del nostro Paese e degli altri Stati di tradurre in fatti concreti queste linee guida dipende molto del futuro del contrasto alla criminalità organizzata, che non è solo mafia. Infatti, sono oggi in atto da una parte una delocalizzazione delle mafie e dall’altra parte una crescente ampiezza delle manifestazioni della criminalità organizzata, che hanno bisogno di una impostazione altrettanto ampia nell’attività di contrasto. Sul piano culturale e sul piano operativo.
Questa mostra come può contribuire a tenerne viva la memoria e a generare testimonianza?
Sono particolarmente orgoglioso del fatto che questa mostra, che riesce ad unire valori religiosi e valori civili, sia una delle più visitate al Meeting di Rimini. Vorrei esprimere la speranza di portarla a Palermo. Ad esempio, organizzarla al Palazzo di Giustizia sarebbe certamente molto utile per far sviluppare un autentico rapporto di sinergia, di condivisione di valori e di sentimenti, tra il mondo della giustizia, le altre istituzioni, il mondo religioso e i giovani. Credo che nessuno possa restare indifferente nel vedere, come ciascuno di noi ha fatto al termine della mostra, la camicia insanguinata di Rosario Livatino.
Oggi Rosario Livatino è ampiamente conosciuto in Sicilia e non solo, a tal punto che le sue reliquie sono giunte al Meeting di Rimini. C’è il rischio come in casi analoghi di farne un santino?
Io credo che la personalità di Rosario Livatino, la sua vita, il contesto in cui operava, portino a riflessioni molto diverse dalla retorica del “santino”. Basta pensare alla sua famosa frase: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». O al suo impegno senza compromessi contro la dimensione economica della criminalità organizzata, un problema che resta cruciale per il nostro Paese. Il suo pensiero e la sua azione sono una continua sfida.
Che vuol dire, per tornare al suo libro, “fare memoria” di questa persona?
L’esempio luminoso di Rosario Livatino, di cui ha parlato Papa Francesco nell’incontro del 29 novembre 2019 con il Centro Studi dedicato a questo grande martire della giustizia e della fede, ha tutta una serie di implicazioni concrete. Mi limito a segnalare due aspetti che sono strettamente legati tra loro. Il primo è la capacità di tradurre in fatti concreti, nel lavoro di ogni giorno, un principio che oggi è alla base della Procura europea, quello della imparzialità dell’azione del Pubblico ministero. È un principio messo in pratica nel modo più efficace da Rosario Livatino con un comportamento che è ricordato sempre dai colleghi di Agrigento che lo hanno conosciuto: quando, da pubblico ministero, al termine di un processo, prima concluse a sfavore dell’imputato, poi ascoltò con attenzione la difesa, si convinse che questa aveva ragione, e subito dopo replicò chiedendo l’assoluzione dell’imputato. Il secondo aspetto è la “passione per l’uomo” che ha ispirato tutto il suo impegno per la giustizia. In Rosario Livatino ha trovato piena realizzazione la visione espressa da Piero Calamandrei nel discorso tenuto nel 1947 al Primo Congresso del Consiglio nazionale forense, quando esprimeva l’auspicio che la toga – questo abito che unisce avvocati e magistrati – sia «veste simbolica del coraggio civile, dell’altruismo e della solidarietà umana».