di Francesco Inguanti
In occasione della morte di fratel Biagio Conte Comunione e Liberazione di Palermo ha diffuso un comunicato. In esso era riportata questa frase: “Il suo sguardo vedeva Cristo nei poveri prima della loro miseria”. Abbiamo chiesto a don Carmelo Vicari che ne è l’Assistente ecclesiastico diocesano di spiegarne meglio il significato.
Don Carmelo, perché questa frase?
In ogni uomo c’è una innata capacità di fare il male, ma anche di fare il bene ed anzi quest’ultima è maggiore della prima. Cristo ci ha lasciato una indicazione più precisa: guardare ai poveri per raggiungere meglio Lui. Cioè non fermarsi al loro bisogno concreto e immediato, cui va dato una adeguata risposta, ma attraverso questo indicare loro la risposta al loro bisogno.
Cioè quale?
Quello di ogni uomo: trovare il senso della propria esistenza, qualunque forma essa prenda e qualunque situazione essa viva. Fratel Biagio ha incarnato questa preoccupazione in tutta la sua operosità sociale, perché essa non era finalizzata solo ad offrire “un tetto” a chi non l’aveva, ma offrire a tutti una prospettiva per la propria vita. A questo siamo chiamati tutti, ma i grandi della storia lo hanno incarnato con maggior evidenza.
A chi si riferisce in particolare?
I primi nomi che mi vengono sono quelli di San Pio da Pietrelcina e di Santa Teresa di Calcutta, perché forse i più noti; ma la storia della Chiesa è punteggiata da questi esempi.
E fratel Biagio?
Fratel Biagio non si è mai allontanato da questo modo di aiutare il prossimo. Più si adoperava per mettere in piedi e far funzionare strutture di accoglienza, più si dedicava al rapporto personale, alla cura dell’anima di quelli che incontrava, ad indicare loro quella salvezza che aveva sperimentato, dopo un lungo percorso personale di ascesi, anche per la sua vita.
Ma allora c’è un uso strumentale della solidarietà?
Assolutamente no! Anzi! C’è un documento nella storia di Comunione e Liberazione del 1961, che ha formato intere generazioni di ciellini, dal titolo: “Il senso della caritativa”. L’incipit è proprio la spiegazione di quanto abbiamo detto: “Innanzitutto la natura nostra ci dà l’esigenza di interessarci degli altri. Quando c’è qualcosa di bello in noi, noi ci sentiamo spinti a comunicarlo agli altri. Quando si vedono altri che stanno peggio di noi, ci sentiamo spinti ad aiutarli in qualcosa di nostro. Tale esigenza è talmente originale, talmente naturale, che è in noi prima ancora che ne siamo coscienti e noi la chiamiamo giustamente legge dell’esistenza”. Ecco, questo qualcosa di bello è quello che Biagio chiamava “qualcosa di prezioso che accade”. Questo è quanto ho imparato da giovane studente universitario frequentando don Giussani e che ho visto incarnato in fratel Biagio.
Può indicarlo con qualche esempio della vita di fratel Biagio?
La sua scelta di accogliere tutti, senza chiedere nulla preventivamente. In apparenza sembra solo generosità, ma dietro c’è questa concezione dell’uomo che è chiamato allo stesso destino che Biagio aveva già incontrato che era il bene più prezioso ed era quello che era in grado di dare.
E poi?
La sua fede che poggiava su due pilastri granitici: innanzitutto la preghiera. Non si stancava mai di pregare, di far pregare e di chiedere di pregare. La preghiera è la strada maestra per raggiungere Dio, anche se forse la più faticosa; ed infatti, faceva pregare anche quelli che non erano cristiani, invitando ciascuno a rivolgersi al proprio Dio.
E il secondo?
Il digiuno. Si infastidiva quando dicevano che faceva lo sciopero della fame per ottenere ad esempio nuovi spazi per la Missione. Ed aveva ragione. Il digiuno è una piccola forma di ascesi di cui si è purtroppo perso il significato. Non lo pretendeva da nessuno, nemmeno dai volontari della Missione, ma lo indicava a tutti.
Ha prima citato don Giussani. Che relazione vede con Biagio?
In più occasioni, frequentando la Missione, ho visto una modalità di vita che mi ha rimandato alla esperienza della “caritativa” di don Giussani. Nel frequentarlo ho visto come ci teneva a ritagliarsi del tempo per “fare la caritativa”, pur dentro la vita intensissima che conduceva. Mi suggeriva di rileggere spesso un altro brano del testo che ho citato: “L’andare agli altri liberamente, il condividere un po’ della loro vita e il mettere in comune un po’ della nostra, ci fa scoprire una cosa sublime e misteriosa (sì capisce facendo!). È la scoperta del fatto che proprio perché li amiamo, non siamo noi a farli contenti; e che neppure la più perfetta società, l’organismo legalmente più saldo e avveduto, la ricchezza più ingente, la salute più di ferro, la bellezza più pura, la civiltà più educata li potrà mai fare contenti”. Biagio sembrava fare tutto ciò con naturalezza e semplicità dandoci l’esempio di come si può “flettere” la vita per farle prendere la direzione che la compie. L’ha detto bene l’Arcivescovo Corrado Lorefice nell’omelia per il suo funerale.
A quale parte si riferisce?
Quando ha detto: “C’era una dolcezza nel suo essere che veniva da un Altrove, una vitalità che trovava le sue sorgenti in uno spazio inedito, nella tua invisibile presenza. Per questo Fratel Biagio era vivo. ….. Anche alla fine, quando non poteva più muovere i piedi, le gambe, continuava a muovere il suo cuore, sul sentiero della vita. E il sentiero della vita eri Tu, o Padre. E la sorgente della gioia eri Tu. La gioia che non lo ha abbandonato.”.
Quali sono i suoi ricordi più forti del suo rapporto con fratel Biagio?
Almeno due. Il primo è la benedizione. Sono andato a trovarlo più volte negli ultimi mesi. Ogni volta concludeva così: “Tu sei sacerdote: dammi la benedizione”. E così ho sempre fatto, anche lunedì 16 gennaio quando ho benedetto la sua salma nella chiesa di Via Decollati.
E l’altro?
Il popolo che ha generato in questi anni e che abbiamo visto, ma solo in parte, nei giorni in cui ha fatto visita alla sua salma e che ha preso parte ai suoi funerali. Un popolo costituito da persone semplici, variegato nelle provenienze, nelle fedi, nell’età, nella condizione sociale. Un popolo che quando lui era in vita ha guardato a lui come esempio concreto e adesso può godere della sua santità.
Intende riferirsi alla richiesta partita subito del “Santo subito”?
Quello è compito e responsabilità della Chiesa. Mi riferisco alla santità “della porta accanto”, quella che non giunge necessariamente agli onori degli altari, ma colpisce il cuore di chi ha la fortuna di vivere accanto a queste persone. Noi gli abbiamo vissuto accanto e adesso possiamo vedere meglio lui perché è vicino al “Buon Dio”, quello che invocava incessantemente.