di Francesco Inguanti
Piazza Guglielmo II a Monreale attende silenziosa che torni ad essere luogo di vita. Gli abitanti della cittadina normanna ne hanno ripreso possesso. Ma sono in pochi. Frettolosi entrano ed escono dai pochi esercizi commerciali aperti. Il più numerosi sono quelli all’ingresso della farmacia. Scomparse le bancarelle con i souvenir. Scomparsi i tavoli di fronte ai bar. Scomparse le file nell’ infopoint del Duomo. Scomparsi i turisti. Soli i tassisti attendono fiduciosi un improbabile viaggiatore da riportare a Palermo, ma senza turisti la loro attesa è pressoché vana. Il Coronavirus qui ha fatto una strage: non ha ucciso persone, ma ha portato via tutti, tutti quei visitatori vecchi e nuovi che all’ingresso in Cattedrale, con naso all’insù, esclamavano: “Oh! Oh!”.
Abbiamo appuntamento con una delle vittime (sul piano economico) di questa pandemia: uno delle oltre 150 guide turistiche che da questo luogo hanno tratto reddito e prospettive per il futuro. Filippo, 60 anni compiuti, tre figli “in età da marito”, come si diceva un tempo, si aggira silenzioso e mesto all’interno del tempio, vuoto e buio come raramente lui stesso lo ricorda.
Gli abbiamo chiesto di raccontare come sta vivendo questa nuova fase della sua vita, così imprevista e imprevedibile. Usciamo in piazza e così esordisce: “È ornai da quasi un anno che la mia vita è cambiata. Mi definisco ormai un “casalingo”, una nuova condizione umana in cui si mischiano, non sempre in modo sereno, l’impossibilità di esprimermi nella mia professione e la necessità di trovare realizzazione in una attività che non avevo mai svolto prima: gestire la casa”.
Chiedo innanzitutto qual è la condizione economica che oggi vive lui e i suoi colleghi.
“Sostanzialmente – inizia a raccontare – è da quasi un anno che non guadagniamo. Già a gennaio dell’anno scorso c’erano le prime avvisaglie. Poi la chiusura totale. Poi la leggera ripresa dell’estate. Poi il vuoto che continua fino ad oggi e chissà ancora per quanti mesi”.
E come vivete in famiglia?
Mia moglie e i miei figli fortunatamente lavorano ed una è in procinto di sposarsi. Pur in queste condizioni.
Ha stabilito la data in base alla maturazione del suo percorso affettivo con il fidanzato. Ritengono giusto sposarsi, così mi hanno detto, pur in queste condizioni di precarietà. Forse rinunzieranno a qualche aspetto che prima ritenevano essenziale: gli invitati, il pranzo con tanti amici, un viaggio di nozze all’estero. Hanno deciso di far prevalere il loro amore. Ne sono contento. Ho sempre raccontato a mia figlia come si sono sposati i miei genitori. La Messa, un brindisi a casa di amici e l’indomani tutti a lavoro. Lei li ha conosciuti e ha constatato che sono stati felici fino alla morte. Forse la pandemia deve aiutarci a rivedere questi, così come altri aspetti. C’è chi sta peggio di noi.
A chi si riferisce in particolar?
Penso ad alcuni dei miei colleghi, soprattutto quelli più giovani, che hanno perso il lavoro all’inizio della vita matrimoniale, con figli piccoli e il mutuo da pagare. Mi vengono i brividi.
Perché?
Perché all’inizio abbiamo pensato che sarebbe finito tutto e presto. Adesso la situazione si fa lunga e pesante. Dico in tutta franchezza che più d’uno ha fatto ricorso alle Caritas parrocchiali. Ma il cibo è tutto sommato la cosa più facile da trovare. Da quando sono “casalingo” ho compreso meglio di quante cose c’è bisogno in una famiglia e come queste si possano garantire solo attraverso un lavoro stabile: dai mutui per la casa alle utenze domestiche.
Ma la crisi non riguarda solo voi guide turistiche?
Appunto! Il turismo si fonda su una pluralità si servizi che offrono lavoro a tanti. Sono mesi che in questa piazza non c’è una bancarella con i souvenir. Che fine hanno fatto i loro venditori? E poi guardi i pochi bar aperti: ci sono solo i monrealesi. Una volta a quest’ora della giornata bisognava fare la fila per un caffè o una granita.
Torniamo alla sua vita. Come è cambiata in concreto?
In modo radicale. Non potendo espletare altre attività, visto anche la mia età, non mi rimane che collaborare al ménage famigliare occupandomi di offrire a moglie e figli una casa ordinata e accogliente quando vi fanno ritorno.
E perché è così difficile? In fondo si potrebbe invidiare la sua condizione?
La prima difficoltà è di carattere culturale o se si preferisce sociale. Provengo da una famiglia nata e vissuta fino al dopoguerra a Mistretta, sui Nebrodi. L’arrivo a Palermo certamente ne ha cambiato i cromosomi, ma alcuni caratteri ereditari sono rimasti. Mio nonno e mio padre contadini non hanno mai fatto mancare nulla ai figli, ed impersonavamo egregiamente il ruolo di “capo famiglia”. A loro spettava il compito di garantire la sussistenza in tutto e per tutto. Non sapevano concepirsi come “disoccupati”. In agricoltura non ci sono mai disoccupati, Tutta la famiglia trova occupazione nel lavorare la terra o accudire il bestiame. L’arrivo in città ha rotto quell’equilibrio forse millenario, ma non ha sovvertito questi ruoli.
Ma non mi dica che i suoi figli la pensano così?
Assolutamente no! Per loro è ormai normale la parità di responsabilità nel gestire la casa e la famiglia. Ed è bene che sia così. Tutti, maschi e femmine sanno cucinare, fare il bucato, stirare e presto anche allevare i figli.
E per lei?
L’ho imparato in questi mesi. Ma la fatica non è stata l’acquisizione delle competenze materiali. Ormai anch’io conosco tutte le infinità di prodotti necessari per pulire casa o fare il bucato. Al supermercato spesso do io consigli a qualche giovane mamma indecisa su quale tipo di prodotto usare per la pulizia del pavimento e delle piastrelle. Ma questa in fondo è la cosa più facile.
Ed allora?
Fino all’anno scorso non sapevo quasi nulla di cosa comportasse gestire una casa e una famiglia. Ritenevo esaurito il mio compito nell’assicurare le risorse necessarie economiche ma non solo quelle. Adesso la logica si è capovolta.
In che senso?
Lo dico con un esempio. Nei miei oltre 25 anni di matrimonio ero sempre il primo ad alzarmi la mattina per dare il buon giorno a tutti, preparare la colazione e accompagnare i bambini a scuola. Ritenevo questo il modo giusto di impersonare il concetto di “capo famiglia”.
E adesso com’è cambiato?
Si alzano prima tutti gli altri, vanno tutti a lavorare. Quando mi alzo io la casa è vuota. All’inizio mi prendeva un senso di tristezza e inutilità. Adesso è come se avessi cambiato lavoro. Penso a quanti ci stanno tentando senza riuscirci. Adesso accetto che anche questo sia un cambiamento chiesto dalla pandemia. E in un certo senso mi sento più fortunato. Più fortunato rispetto a quelli che il lavoro l’hanno perso sul serio e rischiano di non ritrovarlo più.
Il discorso scivola nuovamente sulla crisi, gli insufficienti aiuti governativi, l’impossibilità a fare una vita “normale”. Filippo si interrompe e saluta, sempre con le debite distanze, una giovane signora. Si capisce subito che è una sua collega rimasta senza lavoro e con indubbi problemi nello sbarcare il lunario. Malgrado la familiarità del rapporto il discorso si fa serio, duro. La signora c’è l’ha con tutti: i medici e la medicina, i politici e il Governo, la società e la Chiesa. Le parole confortanti di Filippo sembrano non avere ascolto. Finché la collega sbotta: “Ma tu che sei così religioso, che a momenti fai pregare i turisti giapponesi quando li porti in visita al Dio, mi dici perché Dio ha voluto questo? Perché Dio ci ha mandato questo maledetto Covid? Che male abbiamo fatto?”
Filippo chiede di interrompere l’intervista e dice: “Capisco perfettamente la tua fatica e i tuoi sentimenti, che in parte sono i miei. Ma di una cosa puoi stare certa: Dio permette, ma non genera il male. E lo permette perché ciascuno e insieme possiamo scoprire il bene che in esso è celato. Però questo non si può capire in questa piazza fredda e solitaria. Andiamo insieme in Duomo e per una volta preghiamo insieme, senza giapponesi e senza italiani. Io e tu!”.
Vanno via ed entrano in Duomo.
In seguito ho chiesto a Filippo come è andata a finire. Ma non mi ha voluto rispondere.