di Francesco Inguanti
“Oggi non è un giorno qualunque, né quella di oggi una semplice commemorazione, e neanche un semplice ricordo emozionale, anche se le lacrime versate sono tante e tante saranno per tutti coloro non più presenti e per chi pur guarito dalla malattia ha riportato gravi conseguenze. Con oggi ha inizio una rinnovata alleanza tra il medico, con il suo ruolo professionale che implica sacrificio e missionarietà e la persona malata che, in quanto tale, necessita di cure, attenzioni specifiche, presenza dei familiari e sostegno spirituale”. Così ha commentato Raffaele Pomo, Presidente regionale dell’Associazione dei medici cattolici Italiani, la Giornata nazionale dei camici bianchi, che si è svolta in tutt’Italia per commemorare i medici che, in particolare durante quest’anno, hanno perso la vita nell’esercizio della loro professione.
A Palermo la manifestazione si è svolta a Villa Magnisi nella sede provinciale dell’Ordine dei Medici, ed ha visto la partecipazione di tante autorità che hanno voluto sottolineare l’importanza che la figura del camice bianco ricopre a servizio di tutti.
È stata una importante occasione non tanto per fare il punto di una vicenda molto complessa per la sua vastità e per la pluralità dei soggetti coinvolti, ma per riflettere su ciò che essa ha insegnato a tutti, e in particolar modo a quanti hanno operato e operano soprattutto negli ospedali.
“Per noi tutti operatori sanitari che siamo stati e siamo tutt’ora in prima linea in questa battaglia – dice Giuseppe Adamo, medico in formazione specialistica in malattie dell’apparato respiratorio che opera al Civico di Palermo – è una occasione privilegiata per andare oltre la materialità, le difficoltà e le incomprensioni di tutti i giorni. Bisogna che i malati possano vedere l’uomo che sta dietro il camice così come altrettanto deve fare il medico di fronte al paziente. In questa circostanza si sono palesati i “limiti” dello strumento che è la scienza e di cui noi in ospedale siamo le braccia. La lezione per tutti medici e pazienti è che siamo uomini, esseri non infallibili. Da questo bisogna partire perché l’uno e gli altri affrontino assieme la prova della malattia”.
A margine dell’iniziativa palermitana sono state dedicate ai medici scomparsi una lapide commemorativa nella quale sono stati scritti i nomi dei camici bianchi vittime della mafia o deceduti nell’esercizio della propria professione e la Cappella di Villa Magnisi, che è stata benedetta dall’Arcivescovo di Palermo Corrado Lorefice, quale ha detto tra l’altro: “La fede, soprattutto quella cristiana, quando è vera, diventa una forza. Bisogna prendersi cura dell’altro, pensare ai nostri stili di vita, incontrarci, sostenerci a vicenda. Credo sia questo ciò che ci ha insegnato la pandemia. E la fede ci può dare proprio questo apporto. Dio è la strada che sta dinnanzi a noi”.
In questa circostanza abbiamo chiesto un ricordo anche a Francesco Muratore, medico che è andato in pensione da pochi mesi e che ha vissuto gli ultimi della sua attività professionale in piena pandemia. “In quei mesi di inizio anno tutto sembrava evanescente e sembrava che anche il lavoro perdesse significato. Invece no, tutt’altro, il rapporto con i pazienti assumeva caratteristiche particolari e inaspettate. Da tempo non mi capitava più di visitare i pazienti come in quel periodo e cioè poter dedicare il tempo giusto: ascoltarli con grande attenzione, visitarli con calma, accoglierli nella loro sofferenza senza star lì a guardare il tempo che trascorreva e pensare a quanti pazienti avevo ancora da vedere. Anche i pazienti erano più disponibili a farsi ascoltare e a raccontare i propri problemi. In altri termini in quel periodo particolare veniva meno quella terribile fretta che tutti vivevamo in periodo pre-Covid. Una frenesia di vivere una vita accelerata che, in fin dei conti, provocava una perdita di gusto della vita. Tutto ciò è stato per me, a fine carriera, una riscoperta della mia professione che non consiste se non nel fare compagnia a chi soffre e ne ha bisogno”.
Gaetano Burgio è medico rianimatore all’ISMET e quindi in prima linea fin dal primo giorno della pandemia. Così giudica questo momento: “Chi lavora negli ospedali, specialmente nei reparti COVID ha, nell’ultimo anno, un compito che lo ha fatto ritornare all’origine della professione sanitaria, quando a prendersi cura dei malati erano i religiosi, coloro che volevano consolare-accompagnare prima ancora di curare; anzi volevano curare tutto l’uomo, il suo corpo malato senza dimenticare la sua anima sofferente, triste e lontana dai propri cari. Ecco, la pandemia ci ha fatto ricordare chi siamo; difronte a questo virus abbiamo pochi protocolli terapeutici, iniziamo ad avere il vaccino, ma ci siamo scoperti avere la forza di essere compagni a chi soffre, di ritornare a sorridere con gli occhi e a dare conforto a chi solo in un letto sta per morire”.
Sulla stessa lunghezza d’onda la testimonianza di Giuseppe Giacopelli che presta la sua opera da parecchi mesi al reparto COVID dell’Ospedale di Partinico: “Questa malattia ci ha costretti a riscoprire noi stessi, a imparare un modo nuovo di essere medico. Può sembrare paradossale, ma non dimentichiamo che è la prima volta che si fa – direi in tutto il mondo – un’esperienza come questa in cui pazienti e medici siamo tutti nella stessa barca, cioè viviamo lo stesso rischio, cioè possiamo ammalarci entrambi allo stesso modo. Questo aspetto ci porta a comprendere meglio la loro sofferenza, perché sappiamo che anche noi corriamo il rischio concreto di occupare il loro posto in un letto di ospedale. Inoltre questa malattia, se incorre lo stato terminale, spesso non lascia scampo. Questo è l’aspetto drammatico e noi non possiamo non coinvolgerci. Oltre alle nostre responsabilità nel curare i malati, il primo impegno di noi tutti può essere racchiuso nella parola “conforto”. Cerchiamo di farlo sempre e con tutti. Ma quando dobbiamo intubarli noi soffriamo particolarmente perché perdiamo il contatto umano. Loro sono sedati, ma noi non possiamo più parlare con loro, ma solo con le macchine e questo per un medico è la cosa più dura da accettare. Cioè curare una persona e parlare con lei solo attraverso le macchine che la tengono in vita”.
Alla manifestazione di Villa Magnisi erano presenti anche l’Assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, il presidente Omceo di Palermo nonché organizzatore della giornata, Toti Amato, l’Assessore regionale Istruzione e Formazione, Roberto Lagalla, il prefetto di Palermo Giuseppe Forlani e il sindaco Leoluca Orlando ed anche i rappresentati di altre religioni. Messaggi sono giunti dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, dalla Presidentessa del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati (in video messaggio), dal Presidente della Regione siciliana Nello Musumeci e dal Presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè. A conclusione il Questore di Palermo Leopoldo Laricchia e il presidente dei Medici Toti Amato hanno consegnato cinque targhe di riconoscimento per le buone pratiche adottate. La mattinata si è conclusa con l’intervento del Presidente della Società italiana della Storia della Medicina prof. Adelfio Cardinale sul tema: “Il valore della storia della medicina”.
La circostanza è stata utile anche per un giudizio sul ruolo e le responsabilità che le istituzioni hanno svolto in questo terribile anno. A tal proposito Rosario Leone, componente del Consiglio direttivo dell’Ordine dei medici palermitano ha dichiarato: “Questa cerimonia è nata per stigmatizzare la memoria di tutti medici ed operatori sanitari che durante la pandemia si sono spesi fino all’abnegazione durante l’adempimento del loro dovere, senza risparmiarsi, sacrificando anche la loro vita; ma deve essere anche da monito per il futuro, perché le istituzioni si adoperino affinché gli operatori che lavorano in prima linea, operino in condizioni di sicurezza, perché il loro lavoro sia salvaguardato a livello mediatico e di opinione pubblica”.
Concludiamo con la testimonianza della moglie di un medico anestesista, Sonia che ha vissuto indirettamente in prima persona questo terribile periodo accanto al marito. “Giorno per giorno ho visto mio marito tornare a casa dopo i suoi turni sempre più stanco Non si trattava di una stanchezza fisica, ma di una stanchezza psicologica che lo ha cambiato poco alla volta rendendolo sempre più umano. Non che non lo fosse prima, ma era un’umanità diversa. Mi raccontava ogni giorno delle vicissitudini ospedaliere, ma il racconto che più ha colpito è accaduto quel giorno in cui mi ha detto che aveva dovuto intubare un collega di 52 anni per trasportarlo in rianimazione al civico. Ho letto sul suo volto il dolore, l’angoscia e un senso di impotenza perché non sapeva se c’è l’avrebbe fatta. Questo ricordo mi accompagnerà per sempre in futuro”.