di Marco Pappalardo
È vero che stiamo vivendo un periodo molto difficile, ma non valorizzare civilmente e pastoralmente la beatificazione di Rosario Livatino sarebbe un’occasione persa di fare del bene alla società e alla missione della Chiesa.
Trent’anni fa, quando fu ucciso barbaramente dalla “Stidda”, non c’era certo la pandemia, ma il virus della violenza armata della mafia era diffuso e mortale, contagiando ovunque sia silenziosamente che con azioni eclatanti. Oggi rischiamo di rendere la criminalità organizzata protagonista, un’alternativa allo Stato nel rispondere alle necessità economiche di commercianti ed imprenditori allo stremo, nell’adescare i ragazzi ancor più in dispersione scolastica, nell’offrire ai giovani senza lavoro un guadagno facile seppur disonesto. E se ciò inquina le nostre città, non lo fa di meno con le coscienze, con la religiosità, tanto che laici e consacrati non dovremmo dormire sonni tranquilli.
Ora, dunque, un giudice – il primo nella storia della Chiesa – elevato agli onori degli altari come martire in odium fidei, non può che essere un segno dei tempi da cogliere. Diocesi, parrocchie, oratori, associazioni, movimenti, gruppi – in presenza e non line – non dovrebbero parlare d’altro in questi giorni; è vero, le norme per il Covid-19 non permettono raduni e celebrazioni in grande, tuttavia la creatività pastorale ha suscitato iniziative a distanza impensabili prima delle chiusure e di grande efficacia. È il tempo opportuno per illuminare storie di impegno, onestà, trasparenza, fede, servizio, dono della vita, cioè di accendere i riflettori su chi sub tutela Dei ha vissuto ogni giorno della vita, senza però tenersela stretta, anzi donandola, innocente e giusto, come Gesù. I contagi passeranno grazie alla vaccinazione, ciò che però resterà nella mente e nei cuori delle persone a causa di anni tanto duri richiede ben altri vaccini.
Rosario Livatino aveva chissà quante preoccupazioni a causa del suo lavoro, ma non mancò di prendersi cura dei genitori, di coltivare gli affetti, di aiutare i poveri, di formarsi a livello religioso, ricevendo il sacramento della Confermazione da adulto, seguendo le catechesi senza chiedere sconti per il ruolo importante che ricopriva, visitando quotidianamente il SS. Sacramento nella chiesa vicino al tribunale probabilmente per chiedere sapienza e umiltà nel giudicare.
In una conferenza affermava: «Decidere è scegliere […]; e scegliere è una delle cose più difficili che l’uomo sia chiamato a fare. […] Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio. Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio. Un rapporto indiretto, per il tramite dell’amore verso la persona giudicata. […] E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società disposto e proteso a comprendere l’uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione». Mi pare che la nostra società e questo tempo abbiano bisogno di “credenti credibili” capaci di un tale modo di essere, operare e servire, ciascuno per il ruolo e per le responsabilità ricoperti, poiché “scegliere” e “giudicare” riguardano tanti aspetti della vita, così come la giustizia non è solo chiusa nelle aule dei tribunali, bensì dovrebbe fiorire in ogni relazione e contesto umano. La mafia, uccidendo Livatino, per un attimo è apparsa vincente, eppure dopo trent’anni “il seme che muore porta frutto”, dunque non lasciamolo marcire, non chiudiamolo nelle sacrestie, invece offriamolo come cibo spirituale e formativo in ogni comunità, ai piccoli e ai grandi.
Nota di edizione. Le foto riportate nell’articolo sono alcune illustrazioni di Roberto Lauciello tratte dal libro di Marco Pappalardo, Non chiamatelo ragazzino, edizioni Paoline.