Di Giuseppe Puglisi
Nei quattro anni scorsi ho vissuto nella Baia di San Francisco, cioè nella regione delle grandi aziende della California, Google, Facebook, Apple (per elencare le più note). Come si sa, queste aziende hanno svolto un ruolo pionieristico, a livello mondiale, nello sviluppo tecnico, specie per quanto riguarda le intelligenze artificiali. Per il mestiere che faccio (ricercatore di astrofisica), mi è capitato spesso di incontrare e conoscere ingegneri impiegati in queste aziende e/o brillanti scienziati delle università prestigiose della Baia (Stanford University e University of California Berkeley). L’ammirazione per queste personalità geniali, responsabili di scoperte innovative in ordine agli algoritmi di intelligenza artificiale, era però accompagnata da un certo disagio: avevo spesso l’impressione che quella genialità rimanesse confinata a un singolo aspetto della realtà (appunto, algoritmi sempre più precisi e più performanti) e non abbracciasse l’interezza della vita, con le sue domande sul significato ultimo.
Nel volume Il nichilismo del nostro tempo, Costantino Esposito dedica un capitolo intero a una riflessione sulla natura della nostra “intelligenza”: vi ho trovato ben descritto il rischio di siffatta dicotomia.
In effetti, è un rischio da cui nessuno può definirsi esente: automaticamente siamo portati ad associare l’intelligenza a una sequenza di calcoli, di analisi, di stimoli che portano a risposte (azioni) complesse; in definitiva, riduciamo l’intelligenza a un navigatore o pilota automatico.
Spesso, infatti, ci troviamo a distinguere l’intelligenza da quella capacità molto più vasta che caratterizza il genere umano e che lo ha da sempre spinto a chiedersi il senso delle cose. L’esito di questo stacco, di questa separazione è appunto una intelligenza “artificiale”.
In maniera provocatoria, Esposito stimola il lettore ad andare al fondo di questa riduzione. E io stesso, pagina dopo pagina, sono stato costretto a fare un esame di coscienza, e ho riscontrato anche in me i tratti di una tale riduzione.
Da quando ho iniziato ad utilizzare, nell’ambito della mia ricerca, algoritmi di intelligenza artificiale, mi sono impegnato a mettere alla prova il calcolatore mediante le tecniche più recenti di generazione di immagini e problemi di classificazione di dati. Per converso, ho cercato di capire se avessi potuto ottenere un risultato migliore di quello calcolato artificialmente. Le performance dell’apprendimento del calcolatore, quello che nel gergo viene riferito come dati di training e di validation, stanno diventando il criterio di misura delle performance della nostra intelligenza. Mi ritengo soddisfatto del risultato ottenuto, se riscontro equivalenti (o con differenze impercettibili) i risultati ottenuti con la macchina e quelli che avrei potuto ottenere da me, se avessi analizzato singolarmente ciascuno dei dati in gioco (ma avrei impiegato un centinaio di anni prima di analizzarli tutti…). Così, le prestazioni della macchina diventano criterio per valutare le nostre prestazioni. Esposito esprime ironicamente questo fenomeno parlando del rischio di “essere giocati” dalla tecnica.
Eppure la tecnica è sempre stato un termine di potenziamento dell’umano. Trovo molto interessante la descrizione di Arnold Gehlen sullo sviluppo tecnologico del genere umano, come tratto distintivo di un’attitudine di un essere carente e insicuro a livello biologico, di intervenire sulla natura per controllarla.
Oggi la tecnica viene sempre più considerata come un’estensione terminale del nostro corpo (basti pensare a quanto è diventato fondamentale avere uno smartphone); ma anche come un’estensione del nostro pensiero. Se filosofi e scienziati cognitivi come David Chalmers e Andy Clark fantasticavano parlando di una mente estesa, collocata al di fuori di un cervello e connessa a terminali cyber–neurologici, oggi queste espressioni sono parte integrante della mission di aziende come Neuralink (https://neuralink.com/) guidate da Elon Musk (orami un’icona mondiale di imprenditore, anche grazie alla sua personalità stravagante).
Come non farsi giocare dalla tecnica? Esposito addita una ipotesi convincente nella risposta di Heidegger: c’è nella tecnica una pro-vocazione, una chiamata, una sfida, un appello rivolto all’uomo, sollecitato a partecipare, non come “oggetto”, bensì come “soggetto”.
Quella stessa tecnica, nata dall’istinto umano di sopravvivenza, di protezione e incremento del proprio essere, oggi prova l’azzardo, attraverso i social media, di dire all’uomo di cosa ha bisogno attraverso il sistema di suggerimenti nelle pagine web, miranti a filtrare i contenuti e creare una bolla sicura di persone (i cosiddetti contatti) vicine al modo di pensare dell’utente. Ma in tutto questo nasce, a detta di Esposito, una nostalgia che è poi quell’appello della tecnica. Nostalgia di “qualcosa che siamo” che ci muove e ci chiama a giocare questo “gioco ambiguo della tecnica”. Vale la pena a continuare a giocare (e a essere giocati) perché in questa ricerca inquieta è già l’esperienza dell’essere sé stessi.
«Il genio del genere umano sta nella capacità di interpretare la realtà senza volerla e poterla mai “mettere a posto”, “sistemare” in schemi. La realtà, in effetti, ci precede e ci eccede». Ma senza il nostro sguardo, continua Esposito, «essa non ci sarebbe neanche, sarebbe niente per noi. Solo uno sguardo attento può accorgersi del darsi misterioso – perché non scontato– delle cose rispetto al niente».