Per un inquadramento teologico dell’ecumenismo

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di Simone Billeci

In preparazione della festa liturgica della conversione dell’Apostolo Paolo, l’intenzione di preghiera della Chiesa si concentra per un’intera settimana nel pregare per l’unità dei cristiani. Occasione, questa, che ci invita a riflettere sul significato teologico dell’ecumenismo, particolarmente promosso in questi giorni di preghiera.

Nella teologia contemporanea per “ecumenismo” si intende quell’aspetto della missione della Chiesa che cerca di condurre tutti i cristiani alla comunione piena nell’unica Chiesa di Cristo. Lungo la storia gli sforzi a favore dell’unità della Chiesa hanno assunto varie modalità. La forma attuale di questi sforzi è quella del movimento ecumenico, ossia “le attività e le iniziative che a seconda delle varie necessità della Chiesa e l’opportunità dei tempi, sono suscitate e ordinate a promuovere l’unità dei cristiani” (Unitatis redintegratio, 4). Le attività contemplate sono “in primo luogo, tutti gli sforzi per eliminare parole, giudizi e opere che non rispettano con equità e verità la condizione dei fratelli separati”; in secondo luogo, “il dialogo avviato tra esponenti debitamente preparati nel quale ognuno espone più a fondo la dottrina della propria comunità e ne presenta con chiarezza le caratteristiche”; terzo, “una più ampia collaborazione in qualsiasi dovere richiesto da ogni coscienza cristiana per il bene comune”, che include anche il radunarsi “per pregare insieme”. In queste attività, infine, “tutti esaminano la loro fedeltà alla volontà di Cristo circa la Chiesa e, com’è dovere, intraprendono con vigore l’opera di rinnovamento e di riforma”. Si cerca così di far sì che “a poco a poco, superati gli ostacoli che impediscono la perfetta comunione ecclesiastica, tutti i cristiani, in un’unica celebrazione dell’Eucaristica, si riuniscano in quell’unità dell’una e unica Chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa, e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica” (Unitatis redintegratio, 4).

La teologia ecumenica, in particolare, è una riflessione ecclesiologia sull’unità da ristabilire nella Chiesa. Un primo passo obbligato, però, è quello di inquadrare teologicamente l’ecumenismo, determinando il suo soggetto, la sua natura, il suo scopo e la sua specificità rispetto ad altre attività ecclesiali.

L’ecumenismo, in sostanza, è una attività svolta fra cristiani, ossia fra tutti coloro che hanno ricevuto validamente il sacramento del battesimo e “invocano la Trinità e professano la fede in Gesù Signore e Salvatore” (Unitatis redintegratio, 1). Si distingue, quindi, dal dialogo interreligioso, che si riferisce al dialogo con le religioni non-cristiane e dal dialogo con i non credenti.

Tuttavia, è da tenere presente il caso particolare degli ebrei, che pur non essendo cristiani, sono i “figli della promessa”, il “popolo eletto” e “nostri fratelli maggiori nella fede” con i quali condividiamo l’Antico Testamento. Essi, perciò, meritano una considerazione speciale fra gli altri non-cristiani, e la Chiesa si pone in rapporto istituzionale con loro attraverso una sezione speciale del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani.

Non appartiene, invece, all’ambito ecumenico la relazione della Chiesa con le sette o i nuovi movimenti religiosi, che non posseggono un valido battesimo, né conciliano le loro convinzioni con la Rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture, anche se a volte prendono alcuni elementi del cristianesimo. Per lo stesso motivo, non si trattano qui neanche fenomeni religiosi relativamente più antichi.

Il “certificato di cittadinanza” come partner del movimento non è un’autentica conseguenza della condizione cristiana. è necessaria, infatti, l’autentica volontà di dialogare: su un piano di uguaglianza, senza pretese di imporre con prepotenza la propria posizione; col desiderio di arricchirsi e imparare dall’esperienza altrui; cercando un linguaggio comune. è imprescindibile, inoltre, la ferma convinzione che l’attuale situazione di divisione è assolutamente anomala e contraddice la volontà del Signore e la stessa ecclesialità delle Chiese. Perciò, non sono interlocutori validi quelli che, pur essendo cristiani, rifiutano esplicitamente il dialogo.

Nel dialogo ecumenico gli altri cristiani non sono considerati come persone singole, ma in quanto facenti parte di una comunità. Ossia, propriamente parlando, più che l’unità dei cristiani si promuove l’unità fra le Chiese e le comunità ecclesiali. Questo, dunque, non solo implica che il dialogo ecumenico si stabilisce tra istituzioni, ma include anche il fatto che “l’altra parte” è contemplata come una realtà ecclesiale, come una comunità costituita da vincoli veramente ecclesiali, e non solo come mera somma di singoli cristiani. Occorre, tuttavia, non isolare in modo assoluto queste due dimensioni, perché la fede è una realtà contemporaneamente personale ed ecclesiale; quando una comunità cristiana è accolta nella piena comunione, occorrerà incanalare in modo adeguato l’assenso personale dei fedeli alla fede cattolica.

L’ecumenismo, quindi, si distingue dall’accoglienza individuale nella pienezza della comunione cattolica. è importante, a riguardo, ricordare che anche se si tratta di due attività diverse, non si oppongono mutuamente; il concilio Vaticano II, in particolare, ha espressamente dichiarato che “l’opera di preparazione e di riconciliazione di quelle singole persone che desiderano la piena comunione cattolica è di natura sua distinta dall’iniziativa ecumenica; non c’è però alcuna opposizione, poiché l’una e l’altra procedono dalla mirabile disposizione di Dio” (Unitatis redintegratio, 4).

Dalla prospettiva di coloro che sono oggetto della missione della Chiesa, questa può essere considerata sotto tre diverse angolature: l’aspetto pastorale della missione (ad intra: indirizzata ai fedeli cattolici), l’aspetto ad gentes (ad extra, nel senso tradizionale dell’“attività missionaria” della Chiesa, rivolta ai non-cristiani), e l’aspetto ecumenico, che si occupa dei cristiani non cattolici. Troviamo esplicitamente questa distinzione nel decreto Ad gentes, 6: “L’attività missionaria tra le genti differisce sia dall’attività pastorale da svolgere nei riguardi dei fedeli, sia dalle iniziative da prendere per ricomporre l’unità dei cristiani”. L’intendere l’ecumenismo come un aspetto specifico dell’unica missione della Chiesa è importante per non confondere i mezzi impiegati nei vari ambiti della missione, diversi secondo il caso in questione; e anche per una corretta considerazione teologica degli “altri cristiani”, che non possono essere equiparati senz’altro ai fedeli cattolici, ma neanche possono essere considerati “infedeli”.

Allo stesso tempo è opportuno ricordare la convergenza di questi tre aspetti nell’unica missione; come prosegue il decreto, infatti, “queste due forme di attività (pastorale ed ecumenica) si ricongiungono saldamente con l’operosità missionaria della Chiesa”. L’ecumenismo, in definitiva, resta configurato come un’attività della quale non è lecito alla Chiesa disinteressarsi: la Chiesa cattolica non può non essere ecumenica senza tradire la propria missione e la volontà esplicita del Signore (Gv 17,21: “perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una sola cosa, perché il mondo creda che tu mi hai mandato”). Perciò Giovanni Paolo II ha riaffermato “in modo irreversibile” (Ut unum sint, 3) l’impegno della Chiesa a favore dell’ecumenismo. Operando così si segue una volontà esplicita di Cristo, si tenta di evitare lo scandalo delle divisioni che tolgono credibilità alla Chiesa e pregiudicano l’evangelizzazione, cercando di offrire a tutti i battezzati l’intero patrimonio dei bene salvifici. La Chiesa madre non può non curarsi dei suoi figli.

Non bisogna, infine, dimenticare che l’obiettivo finale dell’ecumenismo è l’unità visibile della Chiesa, come “un solo gregge con un solo pastore” (Gv 10,16). Si punta alla “comunione piena” o “perfetta” fra le Chiese, in senso “strutturale”: “nella confessione di una sola fede, nella comune celebrazione del culto divino e nella fraterna concordia della famiglia di Dio” (Unitatis redintegratio, 2). Si tratta, dunque, di ristabilire fra tutte le comunità cristiane i tria vincula visibili di unità: symbolicum, liturgicum, gerarchicum. L’unità visibile, infatti, non è solo qualcosa ritenuta conveniente per il buon andamento della Chiesa, ma si trova insita nel suo codice genetico già dagli inizi, come evidenziato nella Rivelazione neotestamentaria sulla vita della primitiva comunità cristiana: “Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere” (At 2,42).

Propriamente parlando, la “comunione piena” si riferisce anche (e soprattutto) alla comunione intima con Dio per Cristo nello Spirito Santo, ma questa prospettiva non è quella propria dell’ecumenismo, anche se lo stretto legame tra la comunione “interiore” e la comunione “strutturale” ci obbliga a tenere presente anche questa dimensione della comunione.

Per l’ecclesiologia cattolica risulta di grande importanza la considerazione dell’unità visibile simultaneamente come dono e come compito. L’unità come obiettivo dell’ecumenismo non può intendersi come se quest’unità non esistesse ora, perché non si tratta di creare l’unità: essa altro non è, nel suo aspetto più profondo, che un dono concesso da Dio alla sua Chiesa in modo irrevocabile. è proprio la fiducia nella fedeltà di Dio, nei suoi doni, che dà speranza all’ecumenismo. L’unità è data alla Chiesa come un dono costituente; per questo, l’ecumenismo vero non tenta di crearla, come se non esistesse, ma cerca di scoprirla in tutti i luoghi dove si trova, per spogliarla di ciò che la circonda impedendo la manifestazione della sua pienezza. Questo porta ad intendere l’ecumenismo come una dilatazione dell’unità già presente, di “quell’unità dell’una e unica Chiesa, che Cristo fin dall’inizio donò alla sua Chiesa e che crediamo sussistere, senza possibilità di essere perduta, nella Chiesa cattolica” (Ut unum sint, 3).

Non è valida nemmeno la posizione opposta: “in realtà già siano uniti, l’unità importante è l’unità spirituale della grazia”. Senza eliminare così drasticamente il peso dell’aspetto visibile della Chiesa, già nel XIX secolo si ipotizzava la teoria delle three branches: la Chiesa di Cristo sarebbe già una e sussisterebbe nella Chiesa cattolica, ortodossa e anglicana, come i tre rami di uno stesso albero. Casomai, occorrerebbe solo passare “dall’unità all’unione”, come i membri di una famiglia che hanno litigato, ma i cui legami di origine e vitale non si possono cancellare. Tuttavia, l’unità già esistente non può essere ridotta alla sola unità invisibile, o ad un debole aggruppamento di Chiese. La Rivelazione mostra chiaramente i vincoli visibili di unità come qualcosa d’intrinseco alla comunione ecclesiale (cf. At 2,42).

Entrambi questi estremi (negazione dell’unità esistente e affermazione di un’unità già piena) sono stati rifiutati dal Magistero della Chiesa. Ciò che consente di affermare senza contraddizione l’unità come realtà già data, ma che allo stesso tempo deve ancora raggiungere la sua pienezza, è la storicità della Chiesa, sempre in tensione escatologica finché dura il suo pellegrinaggio in terris. Essa si trova in statu viae, tra la redazione già operata da Cristo, e l’ancora non consumata recapitulatio omnium escatologica. La Chiesa, quindi, non si può accontentare semplicemente di conservare l’unità che già le è stata data, poiché si tratta di un dono in tensione escatologica verso la sua pienezza. Per questo, “frenare” l’ecumenismo equivarrebbe a soffocare questa tensione, togliendo alla comunione la sua intrinseca dinamicità.

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