La catechesi non è solo acquisizione di conoscenze, ma anche criterio di giudizio

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di Francesco Inguanti

Il mese scorso è stato ospite della nostra Arcidiocesi Enzo Biemmi un fratello religioso, appartenente alla Congregazione dei Fratelli della Sacra Famiglia. Con lui si è avviato il lavoro pastorale di quest’anno. A conclusione di due giorni di inteso confronto a Poggio San Francesco gli abbiamo posto alcune domande.

 

Qual è oggi l’importanza “strategica” della catechesi all’interno della complessità della situazione che viviamo?

Ci sono due ragioni che rendono la catechesi più che mai attuale. La prima viene dalla natura stessa della fede: è vero che al centro della fede ci sta un incontro, ma come in ogni incontro il fatto di potere conoscere sempre più in profondità la persona che si incontra, che si ama, va a nutrire l’incontro stesso. Sant’Agostino dice: “Desidero conoscere Colui al quale ho affidato la mia vita”. Mai nella fede cristiana la conoscenza è stata legata dalla dimensione semplicemente affettiva. Non a caso nella tradizione cristiana si parla di fides qua e di fides quae intendendo la fede come affidamento e come consapevole conoscenza; altrimenti cadiamo nel fideismo o nell’intellettualismo. La dimensione conoscitiva non potrà mai essere eliminata dalla fede cristiana.

E la seconda?

È di ordine culturale e la rende molto più urgente. Nel contesto di cristianità sociale del passato le conoscenze erano ridotte al minimo. Bastava, infatti, imparare a memoria un po’ di catechismo e la catechesi serviva a dare le parole giuste all’esperienza che si faceva. Adesso in un contesto plurale con una diversità di religioni, di posizioni, di filosofie, di saggezze, di opinioni l’imperativo rivolto alla fede nella lettera a Pietro “siate pronti a dare ragione della speranza che è in voi”, diventa fondamentale. In altri termini: se siamo in un contesto in cui si è tutti cristiani non c’è bisogno di molte parole.

Quindi la catechesi è non solo acquisizione di conoscenze, ma anche criterio di giudizio?

Sì, perché la catechesi offre conoscenze, ma anche orientamenti di vita, e quindi chiavi di discernimento per abitare il mondo da credenti. La dimensione etica della catechesi è costitutiva in tutta la tradizione della Chiesa. La Chiesa vive due grandi dimensioni: una narrativa e una argomentativa. Narrativa perché la fede nasce dall’ascolto di un evento che è stato vissuto e testimoniato e nascerà sempre dentro i racconti. Poi riflessiva e argomentativa perché risponde alla questione di fondo che riguarda la sensatezza dell’atto stesso del credere. Questo ci consente di vivere dentro questo contesto culturale e di avere parole per poterlo raccontare. Quindi narrazione e argomentazione sono le due cose che la catechesi deve assicurare.

Oggi si parla sempre più spesso di seconda evangelizzazione. Cosa significa e chi la deve fare?

È una fortuna che soprattutto al sud ci sia ancora un portato delle fede che non trasmette solo tradizioni, ma anche valori. Bisogna riconoscere che dentro le famiglie dove c’è la tradizione c’è un dono. Naturalmente come tutte le tradizioni viene recepita quasi come scontata, fin da bambini, per osmosi. Però come in ogni percorso di fede ciò che viene trasmesso diventa proprio nella misura in cui una persona di fronte alle vere sfide della vita ne fa una scelta. Quindi il secondo annuncio è in qualche modo il passaggio, a scadenze della vita non del tutto programmabili, da una fede per tradizione a una fede per convinzione.

Si, ma oggi?

Poter contare su una base familiare che ha valori cristiani è da una parte un vantaggio, ma dall’altra anche un limite, Così abbiamo persone che vivono da cristiani, ma senza veramente avere mai fatto un incontro personale con il Signore Gesù. Quindi la tradizione ha queste due facce: di risorsa e di sfida pastorale.

Come si possono mettere insieme la necessità che alcuni servizi di catechesi (es il catechismo per i piccoli) debbano essere assicurati con la necessità di far fare innanzitutto un incontro con il Signore attraverso la comunità della parrocchia?

La catechesi, come ogni altra dimensione fondamentale della vita cristiana, come la liturgia e la carità, ha bisogno di una ministerialità. Per esempio c’è bisogno di chi cura una celebrazione. In tante parrocchie ci sono i gruppi di preparazione alla liturgia, che si trovano durante la settimana: sono costituti da laici più sensibili; tante volte preparano l’omelia insieme al parroco e poi curano tutto l’atto celebrativo. La catechesi a sua volta ha bisogno di una ministerialità che è sempre stata riconosciuta. Quindi noi abbiamo bisogno di catechisti, di operatori pastorali per i vari settori. La questione è se questa ministerialità, che magari viene esercitata bene, con impegno e generosità, si innesta in una comunità che è una “non comunità”.

Può essere più chiaro?

Intendo dire che se c’è anche una buona catechesi di preparazione ai sacramenti, ma dietro non c’è una comunità viva in cui questi ragazzi vanno a finire, dove non ci sono attività per loro, dove non c’è spazio per i gruppi giovanili, dove non c’è mai una comunità inclusiva, quelle parole che la catechesi ha trasmesso non incidono sulla vita perché il messaggio profondo la danno le relazioni e i funzionamenti della comunità nella quale si è inseriti; abbiamo bisogno di entrambe le cose. Il punto più difficile è quello di una comunità credente che vive relazioni evangeliche.

E della catechesi degli adulti cosa si può dire?

Un ministero specifico di catechista degli adulti di fatto non esiste, perché abbiamo una tale pluralità di situazioni nella quale noi incontriamo gli adulti che parlare della catechesi degli adulti è una forte semplificazione. Chi sono gli adulti? Sono coloro che portano a battezzare i loro bambini. Che hanno bambini che devono fare la prima comunione. Sono coloro che chiedono percorsi di preparazione al matrimonio. Sono le coppie che convivono. Sono i coniugi che hanno fallito il loro primo matrimonio. Sono le persone anziane e i single che tendono ad aumentare sempre più. Come si fa a parlare di catechesi o di catechista degli adulti?

E allora?

Allora abbiamo questa doppia necessità. Per un verso di avere persone che siano in grado di accompagnare gli adulti in certi passaggi della loro vita, quelli in cui già vengono a contatto con la comunità cristiana. Questi momenti devono essere vissuti bene perché sono momenti importanti. Per altro verso abbiamo bisogno non più di una catechesi degli adulti, ma di evangelizzazione degli adulti che è più testimoniale, che deve essere fatta in tutti negli ambienti in cui si vive. Parlo della testimonianza informale che tante volte è quella decisiva, mi riferisco al dialogo che si fa tra persone, quello che una vicina fa con la sua vicina di casa, parlando della malattia o di un lutto, del problema del lavoro che non si trova.  E questo ha valore di annuncio del Vangelo tanto quanto l’incontro che si fa in parrocchia nei centri di ascolto o nei momenti forti di Avvento o Quaresima. Quindi c’è un dato catechistico specifico che dobbiamo organizzare, ma dobbiamo anche capire che i tempi in cui Dio interviene nella vita delle persone sono spesso non programmabili. Sul non programmabile c’è una ministerialità diffusa che è di tutti i testimoni adulti negli ambienti di lavoro, di divertimento, di impegno politico, ecc.

Non pensa che anche la dimensione territoriale della parrocchia oggi venga meno? Alla mobilità tradizionale tra un paese e l’altro, si aggiunge anche quella quotidiana? Come si deve configurare il futuro delle nostre parrocchie?

Papa Francesco al n. 28 della Evangelii gaudium dice: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità». Poi aggiunge e spiega: «Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie».

Proprio per questo aggiungo che la Chiesa ha ancora molto da fare per trasformare le strutture che erano per l’auto conservazione e quindi identificate con un territorio, con presenze testimoniali che hanno per sé stesse una certa mobilità. Quanto poi al riferimento al territorio dice: «La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione».

Per vivere la Fede, quindi, c’è bisogno di inserirsi in una comunità la quale ha un luogo; quindi il radicamento dentro un territorio e con una presenza fisica non verrà mai superato. Bisogna tener presente che ciò che si muove è la gente con i suoi riferimenti; quindi superare un’idea di identificazione col territorio è un passo ormai da fare.

Ma questo richiede un cambiamento non indifferente.

Questo chiede un superamento di un parrocchialismo rigido di cui sono ancora molto segnati alcuni parroci; però richiede anche alle persone quando ci sono e là dove vanno di poter avere una parola di Vangelo e di poter avere i sacramenti. Naturalmente tutto questo rompe gli schemi tradizionali, chiede dei criteri, non può essere fatto in maniera selvaggia, chiede un orientamento a livello diocesano. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione.

C’è un’altra parola che ricorre sempre in questo discorso ed è la parola “accompagnamento”. Quale valore bisogna darle? In questo percorso di accompagnamento ci sono dei punti di verifica? Alle persone che si incontrano oltre all’accoglienza bisogna saper dare e offrire i contenuti della catechesi?

L’accoglienza è il primo passo, ma il cammino verso la maturità, la maturazione della fede richiede passaggi che domandano anche conversioni, che devono essere messe in atto e verificate dalla comunità. Questo era molto più facile agli inizi della chiesa quando il cristianesimo era una minoranza dentro una visione della vita molto lontana da quella del Vangelo. Ricordo che all’inizio quando una persona entrava nella comunità cristiana c’erano degli scrutini iniziali con cui si chiedeva anche di abbandonare determinate professioni, oggettivamente contrarie alla Fede. Quindici secoli di cristianesimo sociologico rendono difficile in questo momento la visibilità che il divenire cristiano segni una differenza con le mentalità e gli stili presenti; non so per quanto ancora e quindi lo dico così: entrare nella comunità cristiana o non esserci non fa una grande differenza.

E quindi?

A breve diventerà più chiaro chi è cristiano e chi non lo è, mano a mano che verrà smaltita tutta una serie di adesioni puramente sociologiche con tutte le ambiguità che questo comporta. Penso che tra una generazione o due questa distinzione sarà più netta. Certo al sud l’imbrigliamento è più difficile da sciogliere, ma nel nord Italia già comincia ad essere più chiaro. Basta guardare il centro nord dell’Europa: più si vive in situazioni secolarizzate più i cristiani fanno la differenza. Enzo Bianchi parla a tal proposito di “differenza cristiana”, e aggiunge che non si tratta di una differenza contro gli altri, ma una differenza a favore degli altri. Oggi è ancora tutto così mescolato, così imbrigliato che adesso fare dei percorsi di fede che marchino le differenze è una fatica.

Perché?

Perché lo stile è quello pagano, quello di tutti gli altri, anche se uno ha “fatto tutti i sacramenti”.

Ma allora quelli che venivano definiti fino poco tempo fa “valori irrinunciabili” dei cattolici, che spazio hanno in questo discorso?

Ritengo che man mano che i cattolici diminuiranno di numero anche questo aspetto tenderà a chiarirsi, perché sarà oltremodo chiaro per esempio chi è per la vita e non lo è. E lo si vedrà dalle scelte che compirà, non dai discorsi. Adesso è ancora tutto troppo mescolato.

Quindi da questo punto di vista e il discorso di prima del camminare per una conversione non per una compagnoneria è la strada da percorrere? Questo significherà che dovremo anche entrare nel merito di alcuni comportamenti? Esempio la liceità delle convivenze.

Premetto che in molte regioni italiane il matrimonio sacramentale sta diventando un matrimonio di scelta, perché ormai l’abitudine più diffusa. Accade che chiedono il sacramento del matrimonio coppie che convivono da parecchi anni; a questo punto il sacramento del matrimonio non è più un fatto di tradizione, e comincia a diventare per scelta. Queste persone hanno chiaro se vivere i valori cristiani del matrimonio oppure no. A quel punto la decisione diventa più netta,

Quale deve essere allora l’obiettivo dei percorsi di preparazione al matrimonio?

Questi percorsi devono essere un’occasione per una scelta cristiana di fede più che essere finalizzati a spiegare gli aspetti relativi al matrimonio. Comunque anche gli incontri sugli aspetti giuridici o sanitari vanno fatti.

Quindi come si fa a continuare questa esperienza che si avvia prima del matrimonio con i fidanzati?

L’ideale sarebbe che l’appuntamento più importante sia quello eucaristico e domenicale, nel quale ascoltare la parola, condividere la vita comunitaria e poi rilanciare la propria unione. Di fatto l’eucarestia domenicale segna tutta la vita della comunità ecclesiale. A questo vanno aggiunti i momenti nei quali queste giovani coppie abbiamo tempo per rivedersi, con altre più avanti nell’esperienza, fare una verifica matrimoniale. Questa si chiama pastorale post matrimoniale.

E in definitiva?

Ho voluto dire che in fondo l’obiettivo è una coppia eucaristica che vive nella comunità e fa della domenica il proprio appuntamento.

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