La possibilità della crisi: dire di un’attesa

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di Carola D’Andrea

In questi giorni penso spesso che se avessi vissuto questa “clausura” in un altro momento della mia vita probabilmente sarei impazzita. Certo, avrei cercato conforto e ascolto nei miei libri, nelle poesie e negli autori che affollano gli scaffali della libreria. Avrei trovato risposte o, meglio, altre domande nelle pagine sbiadite e piegate di libri già letti, quelli che continuo a tenere sul comodino perché, non si sa mai, potrebbero servire durante la notte, per alleviare le pene dopo un brutto sogno. Guardo il calendario e i giorni segnati in verde con cui indico il trascorrere del tempo, ascolto la pioggia con cui marzo ha deciso di scandire i silenzi e scrivo, come sempre, nell’agenda gli impegni da portare a termine. Il cellulare continua a squillare, le notifiche dei messaggi impediscono la noia, le mail dei ragazzi obbligano a non perdere i ritmi del lavoro, i telegiornali riportano nelle nostre cucine quella morte che speravamo di aver allontanato con una pizza o una torta. Tutto scorre uguale, nella medesima monotonia dell’identico, così che anche questi giorni straordinari hanno acquisito la loro ordinarietà. Poi c’è la domenica, che continua a possedere il suo tempo eccezionale, il suo respiro di festa. È strano, continuo a pensare, potrebbe essere ogni giorno domenica in fondo, eppure c’è qualcosa di diverso nell’ultimo giorno della settimana. Non è la mancanza di lezioni e neppure l’abbondanza del pasto a renderla speciale, non è la presenza dei parenti o l’eleganza dell’abbigliamento a sottolineare la rottura del tempo. È l’attesa, la sospensione del tempo e dello spazio davanti a un evento che continua ad accadere, a giungere anche attraverso lo schermo.

In questi giorni tutti offrono risposte per riempire il tempo, per dare senso al vuoto, sia fisico sia interiore, che improvvisamente ha avvolto le nostre giornate. Alcuni si improvvisano cuochi, altri scrittori o grandi lettori, ma ciò che più mi sorprende in questo momento è la quantità di coloro che sottolineano la fine di un’era, di coloro che esaltano il grande cambiamento dell’umanità grazie al periodo che stiamo vivendo. Cambierà il mondo, cambieranno le relazioni interpersonali, cambieranno i rapporti economici e politici, cambierà la scuola, cambierà la nostra esistenza e, ovviamente, cambierà anche il rapporto dell’uomo con sé stesso. Questo è ciò che viene ripetuto da tutte le parti, anche dalle istituzioni e dalla politica, quasi fosse automatico e spontaneo il cambiamento, quasi bastasse vivere una pausa o un trauma per cambiare l’uomo, come se fossimo semplicemente una risposta meccanica, un effetto derivato da una causa. Quest’ultima, in questo momento, è la clausura forzata, la crisi sanitaria e, non dimentichiamo, economica che stiamo vivendo. L’effetto la rinascita dell’umanità, finalmente redenta dalla sua stessa morte, grata per il lavoro dei suoi concittadini, solidale nei confronti dei bisognosi, finalmente cosciente di ciò che significa essere bloccati al confine, non potere tornare a casa.

Anch’io, all’inizio di questa pausa, nutrivo profonda fiducia nella possibilità offerta, credendo che sì, il 2020 avrebbe segnato un cambiamento epocale, la fine dell’era postmoderna e di tutti i “post” su cui filosofi e non hanno riflettuto. Le ultime settimane hanno lasciato spazio al dubbio, alla perplessità e allo stupore, a interrogativi che impongono, a mio avviso, il ripensamento di quale sia il quid che differenzia l’umano. I giorni diventano sempre più difficili e faticosi, le risorse, economiche per alcuni, psicologiche per altri, sono quasi terminate. Tutto vacilla, l’abisso sembra scavalcare ogni ordine stabilito, ogni tentativo di sopravvivenza. E allora, dinanzi a uno scenario del genere, bloccati ciascuno nella propria selva, nel proprio secretum, dove trovare conforto? È la domanda che mi pongo ogni mattina, quando inizio le lezioni con i ragazzi, quando preparo il mio sguardo, cercando di lasciare loro il ricordo di un sorriso, di un abbraccio che possa oltrepassare la distanza. Dove trovare la forza per dire, ogni mattina, ogni istante, ogni momento della nostra fragile esistenza che sì, vale la pena alzarsi, camminare, cadere, ritrovare una ragione, una possibilità di iniziare. Cosa posso dire io, con tutte le mie debolezze e paure, ai ragazzi che mi chiedono quando torneremo a scuola; perché dovrebbero studiare grammatica, storia, matematica o scienze, ora che si fa più chiaro il possibile non ritorno tra i banchi, ora che il voto è sbiadito e la pagella si sgretola tra le mani. Cosa spinge me, loro, noi, i colleghi, i genitori, i dirigenti, tutti coloro che fanno parte della scuola a programmare la didattica a distanza, a cercare di dire e dare qualcosa in questo momento. La diligenza al lavoro? L’obbedienza ai doveri? La figurazione del ritorno alla normalità? La noia, la possibilità di occupare il tempo? Se così fosse, se fosse soltanto uno di questi elementi, io credo, nulla avrebbe davvero senso, potremmo cadere tutti dentro l’abisso del nulla, seguire, in questo momento più che mai, la deriva nichilista. Eppure, soprattutto adesso, dinanzi al naufragio del nulla c’è un’attrazione, c’è una forza contraria, stupenda e misteriosa, che ci tira dall’altra parte, che ci ricorda il nostro quid, che ci riporta in piedi. Non importa quale sia il nome di questa forza, che sia il volto dei figli, dei genitori, dell’amato, dell’amico, che sia il desiderio del futuro, di ritornare a casa… in tutti questi movimenti c’è sempre un “tu”, c’è sempre un’attesa. Credo sia questo il miracolo e la meraviglia dell’umano, quell’attrazione, quella, appunto, trazione che ci trasporta verso la vita e ci mette in vita. È la stessa forza che ha mosso Dante prima verso la selva e poi oltre. È la forza che mòve il sole e l’altre stelle, è l’unica forza che può abbracciare tutto il nostro esistere. Ogni lezione, prima di cominciare, arriva la notifica di coloro che si trovano nella waiting room, di coloro già pronti con carta e penna per scrivere l’ennesima mappa sui pronomi o sulla rivoluzione agricola. Quando leggo la notifica e vedo che qualcuno mi sta aspettando, all’improvviso, sento una trazione, una forza che supera l’angoscia e la paura derivata dalla lettura dell’ultimo articolo. È la forza dell’incontro, la forza di un tu che, quando diviene segno e riflesso di un Tu più grande, permette di abbracciare tutta la realtà, anche quella buia e dolorosa. Senza questo, senza l’apertura dell’io sull’altro e sull’Altro, saremmo come Ulisse, condannati dal nostro stesso “folle volo”.

Da pochi giorni il Papa ha riunito i cristiani dicendo “Padre”, l’ha fatto il 25 marzo, il giorno dell’Annunciazione. Mi sono fermata, osservando questa coincidenza, ho pensato che proprio in questi giorni, ricorrendo tale memoria, possiamo anche noi dire “sì”, decidere di essere trascinati, trasportati da quella forza che spinge oltre il nulla, oltre la morte. È la possibilità di dire sì al mistero e alla vita che, anche dentro la morte, continua ad accadere. Dentro quel sì, dentro il nostro sì c’è l’accoglienza di un mistero più grande, di quella forza e di quell’attesa che nessun virus può annullare. L’umanità non rinascerà automaticamente, non ci sarà nessun cambiamento deterministico, ma solo, come sempre, dentro e attraverso la libertà del singolo potrà davvero mutare qualcosa. È il momento forse, mentre vengono negate o diminuite le nostre libertà, di riscoprire una libertà più profonda, quella di decidere Chi attendere e verso dove tendere. Mentre le luci delle città si spengono e le usuali distrazioni sono impedite, vorrei che i miei alunni scoprissero una luce più grande, che imparassero, pur con la loro giovane età, la bellezza dell’attesa, il desiderio dell’attendere e la meraviglia di essere attesi, solo così si accenderanno i pronomi, solo così scopriremo di non poter dire “io” senza dire “Tu”.

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