di Giuseppe Di Fazio
Proseguiamo nei contributi all’intervento del Papa in Piazza San Pietro il 27 marzo ospitando un articolo comparso sulla La Sicilia di Catania domenica 29 marzo a firma di Giuseppe Di Fazio.
Piazza San Pietro vuota, desolata. Come le nostre città in questi giorni. Dove la paura, la diffidenza, il dolore, la rabbia la fanno da padroni. Perché non sappiamo più con chi prendercela, a chi chiedere aiuto. E ci rendiamo conto che poco oggi ci serve fare analisi. La tempesta si preparava da tempo e noi eravamo tranquilli. La terza guerra mondiale a pezzetti era in corso, ma facevamo finta di niente. I migranti arrivavano sulle nostre coste portando sulla loro pelle tragedie di interi popoli e noi spesso li abbiamo ricacciati indietro. I poveri nelle nostre periferie gridavano aiuto e noi non li sentivamo. Ora la tempesta è arrivata, in una forma imprevista, e ci ritroviamo impotenti. Viviamo giorni tristi e dolorosi.
Piazza San Pietro venerdì sera era vuota e desolata. Ma c’era un Uomo vestito di bianco che camminava verso una meta. C’era un Papa che, in questa drammatica circostanza per l’umanità, ci ha aiutati ad aprire gli occhi, a guardare un Crocifisso a cui possiamo gridare con tutte le nostre forze pur essendo carichi di tutti i nostri mali: “Signore, non lasciarci in balìa della tempesta”. Non siamo soli. E non usciremo da questa situazione da soli. Papa Francesco ci aperto gli occhi: ci ritroviano “sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari. (…) Non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”.
Le circostanze ci impongono di fermarci. L’imperativo del momento è: restate a casa. Ma fermarci a fare che? A tenere vivo il ricordo del passato? Ad aspettare un futuro migliore, attendendo che – fra un mese, due o un anno – l’emergenza passi? E nel frattempo?
Questo è il momento per scoprire il senso delle circostanze che stiamo vivendo e per ritrovare il coraggio di pensare.
La paura ci paralizza se ci rinchiudiamo nel recinto della nostra solitudine. Questi, invece, possono essere giorni preziosi. “Sono giorni rari, sono giorni preziosi, facciamo qualcosa per meritarceli”, scrive il poeta Franco Arminio.
Può sembrare un paradosso suggerire questa prospettiva, mentre l’economia è ferma e l’emergenza sanitaria avanza imperterrita. Eppure è l’unico modo ragionevole di uscire dalla tempesta. Seguiamo, dunque, il consiglio che, anni fa, già ci dava il nostro editorialista Pietro Barcellona: guardare “l’apparente banalità del quotidiano (per quanto tragico possa essere, ndr) che rivela, a chi è disposto ad ascoltare la voce degli avvenimenti, il senso profondo dell’epoca in cui ci tocca vivere”.
Siamo a un passaggio d’epoca. Non usciremo dall’emergenza Coronavirus con le stese abitudini, comodità, modalità lavorative che avevamo prima. Apriamo gli occhi sulla povertà che c’è attorno a noi, sul sottosviluppo in cui il Sud sta sprofondando, sui popoli da anni vittime di guerre e carestie, sull’ambiente che abbiamo devastato. Ma anche sulle tante testimonianze silenziose di volontari, medici, infermieri, sacerdoti, insegnanti, genitori, amministratori pubblici e servitori dello Stato che in questi giorni stanno offrendo un servizio prezioso al bene comune.
Il nostro futuro comincia oggi, a partire da come affrontiamo le circostanze che ci tocca vivere. Ciascuno secondo la propria responsabilità.