C’è ben radicata nel territorio una Chiesa di popolo che nasce dal popolo e col popolo vuole condividere la fede

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di Francesco Inguanti

Le 13 interviste di parroci siciliani raccolte in due settimane sulla nostra testata per raccontare come da due mesi vivono in una parrocchia spesso vuota e silenziosa, offrono parecchi spunti di riflessione. Ne scegliamo volontariamente soltanto due che rappresentano due punti di osservazione diversi.

Il primo attiene al tema della comunicazione e al modo in cui esso si è evoluto nel corso dell’emergenza Coronavirus. Partiamo da un dato: la quantità di comunicazione, dagli scritti ai video, dalle foto agli audio messaggi, che è andata in giro è aumentata in modo esponenziale. La possibilità di ognuno di accedere al web senza alcuna costrizione, neppure di buon senso o di buon gusto, ha fatto sì che ciascuno si sia trovato sul telefonino uno effluvio di messaggi tra i quali è stato difficile districarsi ad ogni momento della giornata.

Il detto paolino «Vagliate tutto e trattenete ciò che è buono» si è dovuto innanzitutto confrontare con una dimensione del tutto mai vista prima d’ora. Tutti abbiamo dovuto dedicare quotidianamente tempo per liberare la memoria del telefonino da “cose inutili”, di cui molte avremmo voluto fare a meno.

In questo arcipelago ci siamo inseriti noi di Giornotto.com con una sola preoccupazione: dar voce ad esperienze spesso poco note, che non meritano il clamore della grande stampa, ma che aiutano la vita del popolo di Dio proprio perché sono la loro voce.

Ecco che così sono arrivate in redazione tante storie, apparentemente molto simili, ma in effetti tutte diverse, come diverse sono le persone e ciò che producono. In queste storie si sono riconosciuti innanzitutto i protagonisti: le comunità parrocchiali, quelle da 20.000 e quelle da 1.000 abitanti, quelle delle grandi città e quelle dei paesini di montagna, che in questo periodo di formale isolamento hanno dimostrato che nulla può fermare l’espressione pubblica della fede. Così ogni comunità, piccola o grande, ha saputo sostituire alle parrocchie chiuse le case aperte, aperte dal web, ma soprattutto aperte allo Spirito che “soffia come vuole e dove vuole”, che neanche in questa circostanza ha fatto mancare la sua Presenza.

Tecnicamente una comunicazione di nicchia, la nostra, che ha dato voce e pubblicità a tanti piccoli o grandi attori che non si sono tirati indietro nel bisogno e che forse sarebbero rimasti ancora più anonimi di quanto non lo vogliano. Dal punto di vista della comunicazione cattolica questa esperienza sarà ricordata per il boom degli ascolti di TV2000 e della Messa del Papa la mattina a Santa Marta. Ma sarà anche ricordata da tanti cristiani dalla scoperta che la comunicazione si può fare anche in tempi di pandemia purché ci si attrezzi adeguatamente. Più di un parroco ha ammesso la propria iniziale contrarietà all’uso del web, ma al tempo stesso ha ammesso di essersi ricreduto verificate le grandi possibilità che esso ha offerto.

Abbiamo definito il nostro impegno “comunicazione di nicchia”. Per definizione non può essere quindi generalizzata, ma proprio per questo è più mirata e qualificata. Tutti gli intervistati hanno detto che su questo terreno non potranno tornare indietro.

Facciamo solo un esempio. Come sarà la catechesi il prossimo anno? È certo che la riscoperta della famiglia come attore principale, tramite la mediazione di un computer o di un telefonino, non potrà essere dimenticata. La delega al parroco e alle catechiste della preparazione ai sacramenti della Comunione e della Confermazione dovrà essere messa alle spalle come “cosa vecchia”. Dall’anno prossimo catechiste, famiglie e mezzi di comunicazione dovranno necessariamente essere un nuovo unico soggetto con cui comunicare l’esperienza della fede ai più piccoli.

Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono fare sulle conseguenze positive che questa esperienza ci lascia. Nei racconti che abbiamo raccolto si possono trovare altri e forse più interessanti spunti.

Il secondo aspetto riguarda il soggetto cui abbiamo fatto cenno prima: la comunità cristiana che si raccoglie abitualmente nelle parrocchie. A volersi fermare solo alle rappresentazioni della Chiesa diffuse dai grandi network sembrerebbe che i cattolici italiani avessero in questi mesi solo uno sport da praticare: tifare per le chiese aperte e per quelle chiuse. Il dibattito ha raggiunto toni così elevati da coinvolgere non solo i Vescovi italiani, cui era riservato un ruolo primario, ma anche lo stesso Papa. C’è mancato solo che qualche TV nazionale lanciasse i soli sondaggi in diretta per sapere come la pensano gli italiani.

Ed invece dai racconti e dalle testimonianze raccolte emerge che esiste ed è ben radicata nel territorio una Chiesa di popolo che nasce dal popolo e col popolo vuole condividere la fede. Questo popolo è guidato dai pastori che forse non corrispondono alle immagini televisive che ci propongono, dalle fiction ai talent show, forse qualcuno usa ancora la talare, ma tutti sono riconosciuti guide di questo popolo.

Un popolo che innanzitutto non si è tirato indietro nel bisogno crescente e pressante che ha incontrato, che ha trovato risposte sempre adeguate e talvolta anche originali, che non ha chiuso la porta in faccia a nessuno, né italiano né straniero, né nuovo povero né povero di vecchia data. Ma soprattutto hanno trovato, a partire dalle istituzioni, nella Chiesa e nelle parrocchie un partner in grado di stare alla sfida del tempo e pronto forse prima di altri a dare una mano.

Ma questo popolo non ha saputo solo esercitare la carità, ma anche vivere la fede. Una fede che si nutre di molte espressioni popolari, alcune anche riscoperte, in primis il Rosario, che non ha perso il desiderio di comunicare questa esperienza anche senza uscire di casa.

Ed ecco che le case sono divenute una nuova chiesa, quella abitata dalla famiglia «della famiglia come comunione di persone, come Chiesa domestica e santuario di vita» che San Giovanni Paolo II ha additato a tutto il mondo come nuova frontiera dell’evangelizzazione.

Il prof. Luigino Bruni su Avvenire del 1 maggio così scriveva: “Nell’eclisse dell’economia politica è rinata l’economia domestica, l’oikos nomos: l’amministrazione della casa. In questo grande silenzio delle fabbriche, degli uffici e delle piazze, la prima realtà che è emersa con una forza straordinaria è stata la casa. Tutte le belle innovazioni che abbiamo sperimentato …. sono state possibili grazie alla presenza di un corpo intermedio, fondamentale e meraviglioso, situato tra le organizzazioni e il singolo individuo: la famiglia, e in essa in modo tutto speciale le donne e le madri”.

E poi parlando proprio della festa del 1 maggio concludeva: “Sarà anche questa rivelazione del lavoro una delle eredità di questa grande crisi. Un amore civile, non romantico, a volte anonimo, ma fedele all’antica etimologia economica di carità, ciò che costa, che è caro perché vale. In questi mesi non c’è stato nulla di più caro del lavoro. Ci vogliamo bene in molti modi, ma nella sfera civile non c’è amore più serio e grande del lavoro, del lavorare gli uni per gli altri, gli uni con gli altri. Presto dimenticheremo molto di questo tempo, forse dimenticheremo quasi tutto. Ma non dimentichiamo il lavoro svelato”.

Il prossimo 18 maggio potremo con le dovute precauzioni ritornare nelle nostre chiese. Ci porteremo tanto desiderio di riprenderci la vita, ma guai a dimenticare cosa la vita ci ha insegnato, anche stando a casa.

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