“Fare cultura” in tempo di Coronavirus si può

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di Francesco Inguanti

Il Professore. Giuseppe Lupo, da poco più di un anno è il presidente del Centro Culturale “Il Sentiero” di Palermo. Una associazione culturale che da circa 30 anni è presente in città e provincia con una notevole mole di iniziative: mostre, conferenze, visite guidate, presentazione di libri ecc. Con lui proviamo a parlare di cultura in tempo di Coronavirus.

Ora che il Coronavirus ha costretto tutti a casa e rischia di impedirci per molti mesi di vederci in insieme, come si fa a fare cultura? Basta un video, un telefono e l’ormai inseparabile zoom?

Per prima cosa dobbiamo intenderci sui termini. “Fare cultura” per il nostro Centro Culturale ha avuto sempre il significato di una “coscienza critica e sistematica dell’esperienza”, come ci ha insegnato don Luigi Giussani. Tale coscienza oggi è più che mai necessaria e nessuno strumento che possa consentirci di farlo va sottovalutato o scartato a priori. Mi ha molto colpito una riflessione di Eugenio Borgna al riguardo: “Facilmente, cessato il pericolo, negli uomini subentra l’oblio. Ci sarà, però, qualcuno, non so quanti, che in questo tempo di dolore avrà colto l’occasione per stare più attento, per ascoltare se stesso e l’altro più profondamente. Sì, alcuni di noi, dopo questa aspra prova, rinasceranno: capaci di una nuova speranza”. La sfida, oggi, è proprio questa: ascoltare più profondamente il reale, o cascare in una disperata sordità.

Come pensa influirà questa esperienza nel futuro della attività culturale in Italia? I nuovi percorsi di questi mesi possono avere un futuro? Dovremo rinunziare alle conferenze, ai concerti e a tutte le occasioni in cui la cultura produce anche socializzazione?

Questo periodo è stato caratterizzato da un profluvio di proposte culturale, anche di notevole livello, che comporta una cernita accurata e la distinzione radicale tra chi ha accettato la sfida e la radicalità di ciò che ci è accaduto e chi, in vario modo ha puntato sull’orientare il proprio sguardo altrove, o come si è spesso detto “ha arredato il tunnel” in cui ci siamo trovati. È stato lucidissimo, per esempio, Domenico Quirico che, vedendo sfilare i camion dell’esercito che trasportavano le salme dei bergamaschi, si chiedeva sulle pagine de La Stampa: “Ma interrogarsi sulla morte, con dignità, in silenzio, non è un dovere culturale che questa vicenda ci impone?”, con buona pace di Houellebecq che, stavolta, si è limitato a descrivere, nel suo intervento a France Inter, un “virus senza qualità” che comporta una “morte senza che se ne abbia la minima testimonianza”. Riguardo alla forma, una cosa mi ha stupito: c’è stato un dilagare delle “dirette da casa” (di attori, cantanti, musicisti, studiosi…). Instagram (che già era uno dei prodotti tecnologici più compulsati) di questi tempi ha scalato tanti posti nella classifica dei social più usati e, di conseguenza, anche in termini di fatturato. In qualche modo la proposta virtuale del prodotto culturale ha accolto la disponibilità di tempo dell’utente ed ha scelto, spesso con buoni risultati, di abbandonare la scelta del montaggio (che impera sovrana sul web). Questo aspetto, che potrebbe sembrare laterale e contingente, sottolinea da un lato il tentativo digitale di mimesi totale del reale, puntando sul fattore “autenticità”, e dall’altro la sottile, ma non scontata, ammissione di una certa superiorità del reale (anche in termini di “unità di tempo”, direbbero i narratologi). Molti di noi stanno avendo affaticamento agli occhi per la sovraesposizione a schermi retroilluminati. Credo che, come i nostri occhi, sanno riconoscere e richiedono la multidimensionalità del reale, generando un senso di sollievo laddove siamo nelle condizioni di osservare in un contesto esterno (non digitale) un paesaggio da lontano; così, credo, non ci sarà difficile provare quello stesso sollievo, tornando a vivere un incontro dal vivo. Per il resto, certo, questo periodo ha sdoganato in maniera massiccia la presenza a distanza dei relatori (che già era in essere da tempo) e la vedremo probabilmente con più frequenza anche nel futuro che ci aspetta.

 In campo culturale ha fatto molto parlare la lettera aperta che Pupi Avati ha inviato alla Rai per invitarne i dirigenti a rivedere i palinsesti; in essa ha chiesto di cogliere l’occasione, di essere ambiziosi, e scommettere sulla bellezza. Quale tipo di opportunità può sfruttare la cultura in questo frangente?

Scommettere sulla bellezza è una priorità assoluta del fare culturale. Ad essa, sommessamente aggiungerei, dare spazio alla coscienza della vulnerabilità dell’umano. Umberto Galimberti per GQ ha validamente osservato: “siamo di fronte all’inaspettato: pensavamo di controllare tutto e invece non controlliamo nulla nell’istante in cui la biologia esprime leggermente la sua rivolta”. Ma, per evitare di stagnare in una stoica asseverazione della finitezza umana, ci viene in aiuto un affondo particolarmente pregante dall’ultimo libro di Julián Carrón (Il risveglio dell’umano. Riflessioni da un tempo vertiginoso), quando scrive che questa situazione ha rivelato “la fragilità strutturale – non contingente o provvisoria-, emersa in tutta la sua drammaticità”. Questo “scoprirci fragili – continua Carrón – ci tira fuori dal torpore in cui viviamo di solito, ci strappa dalla distrazione a cui spesso ci abbandoniamo senza saperlo. […] L’accusa del limite, della finitezza, il senso tragico implicano quella infinità del desiderio che ci definisce come uomini […]. A quella grandezza appartiene anche la presa d’atto della nostra contingenza: non ci facciamo da noi, non siamo noi a procurarci il nostro essere. Abbiamo oggi, in modo particolare, la possibilità di diventarne più consapevoli”

 Torniamo al Centro Culturale “Il Sentiero. Fa parte di una rete nazionali di Centri Culturale, il più importante dei quali è il Centro Culturale di Milano. Questo rapporto è stato di ausilio? E in che senso? Vi siete scambiate esperienze? Avete centralizzato avvenimenti? Che libri o documenti vi sono stati di aiuto in queste settimane?

Il dover annullare una lista ancora non conclusa di avvenimenti culturali ha persuaso la rete dell’Aicc ad aprire, sin da fine febbraio, un confronto stringente tra le diverse realtà che ne fanno parte, lungo tutto il territorio nazionale. Ci si è subito interrogati sulle potenzialità dei mezzi digitali a nostra disposizione, ma una domanda di senso ha preso il sopravvento: “Guardando ai nostri programmi, quale evento rimarrebbe in piedi di fronte a una situazione così?”. Da questa provocazione è scaturito un lavoro comune che ha visto i Centri Culturali di tutta Italia più uniti che mai: per condividere incontri, proposte e partecipare dalle diverse città di Italia a quanto veniva proposto dalla Rete di Aicc. Ci siamo, come ritrovati, tutti nella stessa città ed abbiamo deciso di unire le forze. Così, si è pensato di proporre degli incontri sui libri che stiamo ritenendo più utili per comprendere, vivere e affrontare questa situazione. Tre i titoli che hanno avuto maggiore fortuna: “Tutto chiede salvezza” di Daniele Mencarelli; “Van Thuan libero tra le sbarre” di Teresa Gutiérrez de Cabiedes e “Il risveglio dell’umano” di Julián Carrón, che sarà presentato venerdì prossimo.

 In che modo e perché?

Ovviamente attraverso la rete, esattamente il prossimo 15 maggio alle 21 il nostro Centro Culturale, insieme alla rete nazionale dell’Aicc propone la presentazione di questo testo, perché rappresenta un punto chiave del nostro cammino di questi mesi, proprio per vivere questa situazione con l’orizzonte di una rinascita piena di ragioni e di speranza. Interverranno, insieme all’autore, Antonio Polito (vicedirettore del Corriere della Sera), Adolfo Ceretti (docente di criminologia all’Università Bicocca di Milano) e Guadalupe Arbona Abascal (docente di letteratura comparata all’Università Computense di Madrid).

 Un economista, non un sociologo, Luigino Bruni ha scritto il 1° maggio per commentare il senso della festa del lavoro queste parole: “Nell’eclisse dell’economia politica è rinata l’economia domestica, l’oikos nomos: l’amministrazione della casa”. Che giudizio si può dare dal punto di vista culturale dell’esperienza domestica fatta in questi mesi?

Credo che per rispondere a questa domanda, per prima cosa sia utile tornare a un’intervista a Cacciari dell’HuffingtonPost divenuta virale, che senza mezzi termini iniziava così: “Leggo malissimo, scrivo con difficoltà, non mi concentro. È una situazione angosciante. Lasci stare le puttanate che raccontano i nani e i ballerini della televisione. Chi può stare bene a casa? Che fantasie idiote sono mai queste? Solo un irresponsabile può avere l’animo sereno in un momento così. In queste condizioni, la casa è un inferno”. È proprio andata così, ciascuno ha vissuto il suo personale inferno e chi ha dovuto interpretare questo inferno per conviverci o per renderlo il più vivibile possibile è proprio il sistema familiare. Ovviamente la preoccupazione definitoria di famiglia svanisce: il nucleo di affetti con cui abbiamo vissuto questo tempo ha dovuto riprendere in carico compiti (faticosi per lo più) che era abituato a delegare. Ripensare i tempi del vivere, la condivisione degli spazi e delle risorse informatiche, sostenere, attenuare o dare ascolto alla fatica, allo smarrimento o alla rabbia dei suoi componenti. Per fare tutto ciò ha dovuto chiedersi le ragioni, ha dovuto stabilire ordini di priorità e di tollerabilità, ricondividere i criteri e affrontare i conflitti. Ha dovuto, in sintesi, dare una serie di giudizi culturali che fino a qualche mese potevamo eludere o ritenere superflui. Questo tempo ha rivelato molto spesso la qualità dei rapporti che ci sostengono e il valore che davamo usualmente ad essi nel nostro vivere pre-Covid.

 Due altre esperienza hanno fatto cultura nelle nostre case: lo smartworking, soprattutto per i lavoratori della Pubblica amministrazione, e la Formazione a distanza per docenti e discenti. Come hanno inciso e incideranno dal punto di vista culturale nel lavoro e nella formazione, negli uffici e nelle scuole? Tutti sostengono che un cambiamento ci sarà, ma oggi che cambiamento si può intravvedere?

La società e gli apparati statali hanno vissuto un’accelerazione dei processi di digitalizzazione, che non era minimamente preventivabile. Le prassi che si sono sviluppate (e sdoganate) in questa fase difficilmente verranno dimenticate o riposte nel cassetto (al netto delle sacche di resistenza al cambiamento, che si nascondono sempre nelle nostre amministrazioni e che proveranno, riuscendoci probabilmente, a dimenticare quanto imparato). Ma anche in questi campi, quello che si vede già in atto è il proliferare di buone pratiche nate dalla spinta della situazione difficile che attraversano in tanti e dalla creatività del singolo. A scuola poi è impossibile non notare come la richiesta di senso sia più acuta, la richiesta di ragioni per svegliarsi da un torpore che ci attira tra un divano e la poltrona, da un’inerzia che ci fa scivolare verso l’immobilismo più o meno arredato da comfort virtuali. Questa forte domanda di senso è emersa con più forza. Stare all’altezza di queste domande, speriamo che più d’ogni altra cosa sia questo ciò che permanga da settembre in poi tra i banchi di scuola.

 In momenti di particolare difficoltà storica quasi sempre le autorità morali sono quelle che si impongono per la loro caratura etica e il grado di autorevolezza riconosciuto a livello internazionale. È il caso anche di papa Francesco. I suoi interventi, quelli mattutini da Santa Marta e quelli più ufficiali da Piazza San Pietro, hanno lasciato il segno. In quale direzione? Che tipo di percorso ha saputo indicare per il futuro?

Papa Francesco ha mostrato che si può stare di fronte alla crisi dell’io e del sistema mondiale senza effetti speciali. Nella ferialità delle Messe mattutine o nella solitudine di una piazza che vuota non si era mai vista. E, con un’umiltà sapiente (che negli scorsi 7 anni ha saputo conquistare molta parte di popolazione che di cristiani ha, talvolta, i nonni), ha riofferto al mondo il proprio rapporto personale con il Creatore. Mi ha molto colpito la scelta di esporre il Santissimo a fine messa la mattina per ben 10 minuti. Quanto di più anti-televisivo si possa immaginare. Questo gesto ha, come tanti altri, richiamato l’uomo alla semplice divinità dell’Incarnazione. Ha riaffermato che il silenzio, una certa solitudine profondamente vissuta, la stasi non sono la sospensione dei significati penultimi che ci assediano e ci perseguitano, bensì sono porta che può aprire la strada al Significato ultimo che ha creato il mondo. Con queste promesse i compiti che non smette di ribadire all’uomo contemporaneo non sono che conseguenze incontrovertibili. La custodia del creato, la cura degli ultimi, la responsabilità dei Paesi più ricchi nei confronti dei Paesi più poveri. Questo patrimonio ce lo ritroveremo nelle coscienze come portato di questo Pontificato a lungo, purtroppo anche per la sordità dei nostri rappresentanti.

 

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